BIOGRAFIA DI DANTE ALIGHIERI


7. Il priorato, l'ambasceria a Roma, la condanna



Agl'inizi del 1300, allontanato Corso Donati da Firenze, individuati i complici dello scandalo di cui erano diretti responsabili l'Acciaiuoli e Baldo d'Aguglione in una certa parte della fazione donatesca, i Cerchi furono in grado di stringere più stretti rapporti col ceto popolare, e non vi furono più seri ostacoli all'istruzione e al dibattimento giudiziale dei misfatti che avevano colpito l'amministrazione della città. I governanti attendono a nuove importanti opere pubbliche, il palazzo dei priori o della Signoria e la nuova cerchia delle mura, ma non trascurano di difendersi dai continui attacchi dei Neri: ne avremo la prova quando si vedrà che più tardi (10 marzo 1302) tre dei sei priori del bimestre dicembre 1299-febbraio 1300 sono condannati al bando e poi a morte con Dante: Donato Ristori, Lapo de' Minutoli e Lapo Biondo di Benci, segno dell'impegno che costoro ebbero per tutelare l'autonomia delle istituzioni democratiche contro le insidie dei donateschi. Bonifacio VIII continua nella sua astuta politica di amicizia e di favoreggiamento dei Grandi toscani, dai fiorentini Buondelmonti e Cavalcanti ai conti Guidi e ai conti Alberti di Mangona; tuttavia il suo animo di pontefice romano è nel contempo volto all'organizzazione del Giubileo, bandito ufficialmente con la bolla Antiquorum habet del 22 febbraio; ma, rispondendo a una pratica di pietà già diffusa nei secoli precedenti a commemorazione della data di nascita di Cristo, il Giubileo doveva essere già in atto dal Natale precedente se la lucrazione delle speciali indulgenze ha effetto dal 25 dicembre del 1299.

È opinione generale che Dante fu tra i pellegrini di Firenze venuti a Roma per quella straordinaria evenienza, e se ne ascrive il motivo non tanto ai numerosi ricordi ch'egli serberà della città di Roma nella Commedia, quanto alla precisa descrizione, passibile addirittura di 'cosa vista', dell'essercito molto dei pellegrini che varcano in doppio senso di marcia il ponte di Castel Sant'Angelo (Inf. XVIII 28-33): circostanza che Dante avrebbe potuto conoscere dallo stupefatto racconto di altri romei o dal resoconto di cittadini romani l'anno successivo, quando fu a Roma per l'ambasceria presso papa Caetani. Se tale pellegrinaggio vuol essere creduto, non può porsi che nei primissimi mesi del 1300, prima dell'incarico politico presso il comune di San Gimignano e del bimestre priorale, in data successiva al quale non doveva esser aria per Dante di recarsi a Roma pur con l'immunità del pio pellegrino. La datazione più 'comoda', assai confacente al valore ascetico del viaggio escatologico, sarebbe la Settimana Santa, proprio con partecipazione alla speciale cerimonia del Venerdì Santo, l'8 aprile. Niente esclude ma anche nulla incoraggia una simile temeraria eppur vantaggiosa ipotesi.

Bonifacio incalza. Sempre più apertamente si scoprono le sue mene sulla città di Firenze. Vieri de' Cerchi, chiamato a Roma per stringere pace e alleanza coi Donati, declina l'insidiosa proposta e il papa si volge ormai al completo favore dei Donati. Corso, lasciata Orvieto, ottiene dal papa la nomina (8 febbraio) a rettore di Massa Trabaria, tra Cagli e Urbino; in un certo senso s'approssima ai confini dello stato fiorentino, e comunque gode di più flagrante protezione pontificia. Per il momento non avrà modo di rientrare in Firenze (dove sarà soltanto, come vedremo, nel novembre del 1301), ma fomenta le zuffe di Calendimaggio e la radunata nera, qualche settimana dopo, nella chiesa di Santa Trinita. I priori, propriamente quelli del bimestre precedente a quello del governo di Dante, condannano a morte Corso e ordinano la distruzione delle sue case. E dunque il conflitto tra Bianchi e Neri è ormai senza remissione, è guerra aperta. L'incarico affidato a Dante di un'ambasceria presso il vicino comune di San Gimignano, il 7 di maggio, s'inserisce per l'appunto tra lo scontro di Calendimaggio e il convegno di Santa Trinita, ed è quindi partecipazione più che ufficiale al programma politico generale dei governanti bianchi. In sé non è atto di grande rilevanza, eppur significativo dei tentativi dei Bianchi di assicurarsi l'alleanza delle città più vicine e del rango ormai esplicito assunto dal poeta, in un momento, anzi in settimane dense di avvenimenti e di fato. La missione diplomatica a San Gimignano è sicura: davanti al Consiglio generale di quel comune Dante svolge una relazione, a nome dei Fiorentini, per organizzare l'elezione del nuovo capitano della Taglia guelfa di Toscana e persuadere i Sangimignanesi a parteciparvi, così come altri ambasciatori avevano fatto o faranno in quegli stessi giorni coi governanti delle altre città alleate, dalle forti Lucca e Prato a Pistoia ai comuni minori di Volterra, Colle, Poggibonsi e San Miniato. La perorazione del "nobilem virum Dantem de Allegheriis anbaxiatorem comunis Florentie" non resta inascoltata, e i Sangimignanesi nominano i loro delegati al convegno della Taglia, il quale avrebbe dovuto aver luogo a Empoli (dove s'erano svolte le precedenti radunanze, quasi a perpetuo monito di altro convegno empolitano, quello che aveva visto Farinata difendere a viso aperto Firenze dalla distruzione), ma fu invece a Castelfiorentino, nell'ultima decade di giugno (quando Dante è già entro il Palazzo, quale priore).

Due altri fatti si consumano in questo stesso periodo; a nessuno di essi è da principio legato il nome di Dante, e tuttavia la sua corresponsabilità con la politica dei precedenti priori è nella forza delle cose: la congiura che nel marzo Lapo Saltarelli, il gonfaloniere Lippo Rinucci-Becca e ser Bondone Gherardi avevano scoperto e sventato nei riguardi di tre cittadini di Firenze che in Roma, con la protezione del papa, tramavano contro l'autonomia della loro città. Secondo evento è la nomina di Matteo d'Acquasparta a legato papale per la Toscana, la Romagna e altre parti d'Italia: 23 maggio. Incombenza particolare di frate Matteo avrebbe dovuto essere quella di paciaro tra le fazioni fiorentine dopo la zuffa di Calendimaggio e la radunata a Santa Trinita, ma col segreto proposito di agevolare il rafforzamento dei Neri e, in genere, quello dei magnati contro il popolo. Il paciaro parte in gran fretta dalla Romagna e giunge a Firenze ai primissimi di giugno. II sistema escogitato dal frate d'Acquasparta per far saltare la solidità del reggimento democratico era ingegnoso: limitare l'elettorato passivo per i priori a una serie di nomi scelti apertamente tra i migliori cittadini di ogni sesto. In tal modo anche i Neri entravano nell'elenco, dal quale i nomi dei sei prescelti avrebbero dovuto scaturire per sorteggio e non per elezione segreta; e il sorteggio non era escluso favorisse i Neri, o comunque li facesse entrare nel sestetto. Ma i popolani s'opposero alla nuova procedura, imponendo la vecchia.

Il 13 giugno si va alle urne, e risultano eletti Noffo di Guido, Neri di Iacopo del Giudice, Nello d'Arrighetto Doni, Bindo di Donato Bilenchi, Ricco Falconetti e Dante Alighieri; sarà gonfaloniere di giustizia Fazio da Micciole. Al mattino del 15 giugno i sei priori prendono possesso della carica nella chiesa di San Pietro Scheraggio e dinanzi alla ringhiera di Palazzo Vecchio; subito dopo entrano nel palazzo.

Alle decisioni e alle responsabilità assunte in quei due mesi di priore Dante, con piena ragione, farà risalire le sue successive sventure di vent'anni. L'abbiamo già ricordato attraverso le parole dell'epistola perduta: "Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione a principio". E l'amarezza dell'esule sarà tale che nessuno dei protagonisti di quel fatale periodo si salverà dallo sdegno, dall'avversione, o, peggio, dal polemico silenzio che si levano dai versi della Commedia: non soltanto i nemici, come sembrerebbe legittimo (Bonifacio, Corso, Baldo d'Aguglione, Matteo d'Acquasparta), ma anche i sodali dell'avventura politica: Palmieri Altoviti, gli stessi Lapo Saltarelli e Vieri de' Cerchi, in un certo senso persino Guido Cavalcanti, il cui impegno di parte non desterà alcuna eco nell'amico della giovinezza; e così per Lapo Gianni, di cui serba soltanto memoria letteraria. Quasi a voler cancellare ogni rapporto con quella compagnia di cui poi verificherà la 'malvagità' e la 'scempiaggine' di politici.

A poche ore dall'insediamento i priori sono costretti a prendere una grave decisione. Il notaio del comune, ser Sostegno di Busatto, consegna loro e al gonfaloniere di giustizia il testo della condanna dei tre congiurati (Noffo di Quintavalle, Simone di Gerardo e ser Cambio da Sesto): il qual documento "dicti priores et vexillifer iustitie acceperunt et apud se retinuerunt", come registra l'imbreviatura di Lapo Gianni, o meglio (se è lo stesso, come pare, del poeta amico di Dante), di ser Lapo di Gianni Ricevuti. E alla sentenza diedero esecuzione: una multa "in libr. duobus milibus pro quolibet" e il taglio della lingua. Era la messa in opera di un dispositivo giudiziario del quale i nuovi membri dell'apparato esecutivo non avevano diretta responsabilità e che non avrebbero potuto in alcun modo annullare senza grosso rischio sul piano politico e, dunque, verso la politica del Consiglio generale; purtuttavia resta sempre il prim'atto di un programma autonomistico di cui il second'atto segue subito dopo, quando ha luogo la discussione se avanzare o meno richiesta ai Cento di concedere la balìa a Matteo d'Acquasparta, che l'aveva domandata con impazienza e che, alla fine, l'ottenne, dopo il 27 giugno, ma con notevoli limitazioni nell'esercizio di essa. E l'ottenne a causa dell'aggravarsi della situazione sul piano dell'ordine interno, quando la sera della vigilia di s. Giovanni, il 23 giugno, i Grandi erano venuti alle mani coi consoli delle Arti e notabili del governo popolare i quali sfilavano in processione per recare in San Giovanni le offerte votive. I Donateschi vennero condannati al confino nella terra perugina di Castel della Pieve; i Cerchieschi a Sarzana, e tra questi ultimi fu Guido Cavalcanti: otto capi per Parte nera, sette per i Bianchi, e tutti con "loro consorti", familiari a famigli.

Al rifiuto dei Neri di partire per l'Umbria (i Bianchi si recarono subito al loro confino di Lunigiana), il cardinale d'Acquasparta ottenne, come s'è detto, la balìa, ma invece di esercitarla nella giusta direzione dei Donateschi ribelli cercò di ottenere milizie da Lucca per imporre con la forza il suo arbitrato. I priori s'appellarono ai governanti lucchesi per scongiurare il pericolo di uno scontro armato tra le città e le fazioni relative. Si matura in queste circostanze l'atto definitivo dello scontro tra i Bianchi e il paciaro papale, dunque tra i Bianchi e Bonifacio VIII: un popolano attenta alla vita di frate Matteo, tra il 15 e il 18 luglio. I priori tentano di placare le ire del legato, decidendo di offrirgli una coppa d'argento ripiena di 2000 fiorini d'oro, ma Matteo rifiuta; tuttavia i Neri sono costretti a prendere la via dell'esilio, e le mene dell'Acquasparta non potranno per il momento esser poste in esecuzione (s'allontanerà da Firenze più tardi, agli ultimi di settembre, dopo aver lanciato, 28-29 sett., la scomunica contro i governanti).

Scade il bimestre priorale di Dante; i nuovi eletti provvidero a revocare il bando ai sette Bianchi, il che fu causa di ancor più aspro contrasto con Bonifacio e col paciaro per l'aperta parzialità del provvedimento. Nell'epistola perduta, e di cui il Bruni vide e utilizzò il testo, Dante si sarebbe giustificato "che quando quelli di Serezzana furono rivocati, esso era fuori dell'uffizio del priorato, e che a lui non si debba imputare: più dice, che la ritornata loro fu per l'infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana per l'aere cattiva, e poco appresso morì". L'esegesi della citazione indiretta farebbe supporre che non solo la malattia ma anche la morte di Guido fossero avvenute in Sarzana, e dunque i Bianchi fossero stati autorizzati al rientro a motivo della necessità di riportare in Firenze la salma del poeta, la sola malattia non essendo bastante circostanza per una sanatoria di ordine generale. La data del 29 agosto incoraggerebbe questa interpretazione letterale, e per la brevità del tempo dall'entrata in carica dei nuovi Signori fa pensare che il provvedimento di revoca sia stato il primo a essere preso (lo stesso 15 agosto?), e dunque tale da suonare sfiducia o improvviso cambiamento di rotta rispetto ai priori scaduti. Sta di fatto che Dante lo prese in tal modo, non è a dire sul momento poiché la collaborazione coi Bianchi continuò sino alle estreme conseguenze per oltre un anno, ma certamente allorché, un decennio più tardi, ebbe a ripensare, anche in questa epistola perduta, agli effetti della sua azione politica e alle cause dell'esilio.

Il 14 aprile 1301 Dante interloquisce nel Consiglio delle Capitudini, per due volte nella stessa giornata (forse in una seduta al mattino, l'altra alla sera, se il verbalizzante stende rapporti distinti). La duplice assisa del 14 aprile era stata convocata per deliberare sui modi dell'elezione dei priori, e Dante sostiene la proposta più democratica (sorteggio su quattro nomi e non due per ogni sesto) ch'era stata ivi avanzata per bocca di Bindo di Guicciardo, ch'è detto Savio, e dunque anche il poeta era stato convocato con lo stesso rango, non perché fosse console delle Arti. Il prestigio politico di Dante è dunque intatto, e ciò dà maggior spicco alla parte ch'egli ebbe nel Consiglio dei Cento del 19 giugno, dopo che aveva prestato la sua opera a favore della città quale ufficiale e sovrastante ai lavori di costruzione della via di San Procolo che dal borgo della Piagentina sarebbe giunta sino all'Affrico, secondo una deliberazione dei sei sindaci preposti dal comune per rinvenire e difendere i diritti del comune stesso e per riorganizzare il sistema viario della città (deliberazione assunta il 28 aprile 1301).

La radunanza del 19 giugno è, di nuovo, un fatto centrale nella vita del poeta. All'ordine del giorno era la richiesta di Matteo d'Acquasparta, il quale parlava a nome del papa, affinché i Fiorentini in numero di cento cavalieri concessi per il rinforzo delle truppe in un'impresa ai confini della Toscana, contro Margherita Aldobrandeschi, non fossero richiamati. Nella prima seduta due oratori si pronunciarono a favore dell'accoglimento della richiesta di Bonifacio VIII, un altro propose il rinvio, il solo Dante si oppose: "Dante Alagherii consuluit quod de servitio faciendo d. pape nichil fiat " (si pronunciò favorevolmente ad altra richiesta, di minor peso: l'assunzione della difesa di Colle Valdelsa). La questione è riproposta lo stesso giorno nel consiglio ristretto, e Dante conferma la sua netta opposizione, ma prevale con 49 voti positivi e 32 contrari il parere favorevole di un altro oratore, successivamente ratificato dagli altri Consigli. Da questo emerge che nelle file dei Bianchi non fosse completa concordia, come l'accorta previdenza della maggioranza, guidata dai Cerchi, non piacesse a tutti. Dante doveva tuttavia esercitare un forte ascendente, dal tempo del suo priorato, come capo di una minoranza nella fazione dominante, il che, com'è evidente, gli sarà particolarmente imputato al momento della condanna, e potrà influire, assieme alla precedente presa di posizione del 14 aprile, nella specifica accusa di baratteria.

Altre volte ancora, e saranno le ultime prima del bando, il nome del consigliere Dante riappare nei verbali dei Cento, in seduta allargata il 13 e il 20 settembre, in ristretta ai soli Cento il 28 dello stesso mese: si pronuncia favorevolmente alla conservazione degli Ordinamenti di Giustizia e in genere del governo popolare; si pronuncia poi in senso positivo alla richiesta di autorizzazione avanzata da Bologna per il trasporto di granaglie, da Pisa al territorio bolognese, passando per quello fiorentino, E infine, il 28 settembre, a favore dell'accoglimento di otto proposte (di cui importanti la concessione della balìa ai priori per procedere contro reati di violenza e aggressione o di falsa testimonianza), proposte che tendevano a snellire le procedure istruttorie e giudiziarie in un momento di sempre maggiore confusione e criminalità nell'ordine pubblico. Più rilevante, tuttavia, fu sul piano politico l'amnistia concessa a Neri figlio di Gherardino Diodati (priore quest'ultimo nel bimestre precedente quello di Dante), condannato, ma innocente, per un delitto di sangue; l'assoluzione fu proposta dal giudice Albizzo Corbinelli e da Dante, e ottenne 73 voti favorevoli contro 7. L'importanza dell'episodio s'evince dal fatto che la sentenza era stata emessa dal podestà Cante de' Gabrielli di Gubbio, il quale, ritornando podestà il 9 novembre 1301, avrebbe avuto un motivo in più di risentimento contro il consigliere che aveva fatto annullare il suo dispositivo (il nome di Gherardino riapparirà nella sentenza di condanna del 27 gennaio 1302 con quello di Dante; anche questa coincidenza può essere ritenuta prova di parzialità da parte del magistrato eugubino).

Solo in apparenza la politica dei Bianchi può sembrare nel complesso avveduta verso il papa ed energica nei riguardi dei Neri; in realtà la sfida rivolta a Bonifacio da parte di una minoranza oltranzista e la repressione subita dai Neri a Pistoia, città chiaramente soggetta alla politica fiorentina, affrettano la decisione d'intervento militare. Carlo di Valois era già dall'11 luglio in territorio italiano, e Bonifacio è certo di poter utilizzare la spedizione per i suoi fini egemonici sulla Toscana. La negazione degli aiuti, prima a Carlo d'Angiò e poi a Bonifacio VIII, è la causa prima e fondamentale del processo del 1302, i cui giudici dovettero consultare più volte quei verbali per formulare l'accusa a Dante; vero è che il breve tempo intercorso, poco più di sei mesi, non rendeva poi necessaria una rigorosa ricerca negli atti, tanto la virulenza dell'Alighieri doveva essere impressa nella memoria di tutti. L'atteggiamento pubblico di Dante è un crescendo di temerarietà e di coerenza, e se ne potrebbero documentare meglio le varie fasi se si vuol credere al Barbadoro sull'effettiva esistenza di un'arringa dantesca anche nella consulta del 15 marzo 1301, diretta a respingere le richieste dell'Angiò, donde l'errore di un postillatore trecentesco che fa riferimento a una differente deliberazione, afferente a donativi offerti a Carlo di Valois nella provvisione del 26 marzo 1302, quando Dante era da varie settimane al bando.

L'imminenza del pericolo, dopo l'incontro bolognese tra Carlo di Valois e i Neri, il passaggio del principe francese lungo i confini dello stato di Firenze (per Sambuca e Piteccio, risalendo il corso del Reno e discendendo lungo l'Ombrone; poi soffermandosi a Pontelungo, vicino a Pistoia), la sosta a Siena, l'arrivo a Roma, la presentazione ufficiale alla presenza del papa in Anagni e l'allocuzione di Bonifacio sull'investitura di Carlo a capitano generale dei territori della Chiesa e a paciere della Toscana (5 settembre), consigliarono i governanti a un'estrema e forse anch'essa improvvida mossa: inviare un'ambasceria presso Bonifacio. Quando partì la missione? E fu certamente Dante in essa? Nell'assenza di documenti pubblici, tocca dar massima fede al resoconto del Compagni (che il 15 ottobre entrava in Palazzo come uno dei priori), confermato subito dopo dall'Ottimo e da un compendio del Villani, più tardi dal Bruni. Dino da principio non registra i nomi degli ambasciatori, ma soltanto le parole del Caetani: "Giunti li anbasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: 'Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia ubidita la mia volontà". Ancora stando al Compagni, sembra che l'ambasceria fosse partita qualche giorno prima delle nuove elezioni della Signoria, anticipate al 7 di ottobre per offrire una tempestiva prova di buona volontà. È dunque probabile che l'ambasceria partisse di Firenze a brevissima distanza dal 28 settembre, non essendo da escludere che, in tutta segretezza e senza lasciarne traccia nei verbali, fosse stata decisa in questa stessa seduta o, comunque, contestualmente alla medesima sessione di lavori.

l Compagni ci dice il nome degli ambasciatori (o di tre di essi se la missione diplomatica fu più numerosa) in due fasi: quello di Maso Minerbetti e del Corazza da Signa allorché narra che due dei Fiorentini furono rimandati indietro dal pontefice, e quello di "Dante Allighieri che era anbasciadore a Roma", quando elenca i principali Bianchi condannati nel 1302. E dunque il poeta - personaggio troppo influente perché Bonifacio potesse correre il rischio di rimandarlo a Firenze - restò in corte per vario tempo, almeno fin quando gli giunse notizia del precipitare della situazione in Firenze, della vanità del suo incarico a Roma, del pericolo ch'egli stesso correva a corte, e i suoi familiari e sodali in patria, per la violenta repressione posta in opera dai Neri vincitori anche con distruzioni e saccheggi di case, comprese quelle degli Alighieri. Il Minerbetti e il Corazza saranno dunque ripartiti prima che giungesse alla corte papale la nuova dell'ingresso di Carlo di Valois a Firenze (1 novembre, ma prima del 4 erano già in città); Dante si sarà mosso soltanto dopo che giunsero a Roma le notizie della nuova Signoria nera (7 novembre), della presenza in città di Corso Donati e di Cante de' Gabrielli, del ritorno di Matteo d'Acquasparta, della fuga dei Bianchi, come c'è dato sapere dalle eloquenti provvisioni della nuova Signoria il 24 novembre, che confermavano in diritto il nuovo stato di fatto.

Resterebbe ancora da chiederci se l'ambasceria fosse ricevuta da Bonifacio in Anagni o a Roma, e se dunque Dante si spingesse sino alla città natale del Caetani. Ma Bonifacio VIII rientrò a Roma nel 1301, il 2 ottobre. L'ipotesi che la drammatica udienza avesse avuto luogo nel palazzo papale di Anagni, e in data successiva i messi del comune di Firenze si portassero a Roma al seguito del pontefice, è piuttosto ardua, ma non impossibile: gli ambasciatori fiorentini si sarebbero portati ad Anagni alla vigilia della partenza del pontefice. C'è inoltre da discutere intorno a un'altra possibilità, che non pare considerata dagli studiosi: è sicura una precedente ambasceria fiorentina nel novembre 1300 (l'udienza avvenne l'11 nov.): che il Compagni confondesse questa con quella del 1301 designando Dante nell'elenco dei condannati del 1302, non è possibile, ma ha un filo di probabilità l'ipotesi che scrivendo "era anbasciatore a Roma" intendesse dire non che lo era al momento della condanna, ma lo "era stato". In tal caso Dante sarebbe stato ambasciatore un anno prima, avrebbe in quell'occasione lucrato il Giubileo, e tutte le impressioni romane (la pigna, il Laterano, il Castello, Montemario, ecc.) si riferiscono a un unico soggiorno, nell'autunno del 1300. Offriamo quest'ipotesi pur rendendoci conto che appare nel complesso un po' meno solida di quella tradizionale, sebbene resti il dubbio che la presenza di Dante alla corte di Roma nel 1300 poteva avere un significato politico, all'indomani del suo priorato e delle sue scelte imparziali tra Bianchi e Neri dopo lo scontro della vigilia di s. Giovanni, e sortire qualche effetto di mitigazione degli sdegni e delle mene bonifaciane, mentre la partecipazione all'ambasceria da parte di un uomo che da solo, nei consigli del 1301, s'era levato a parlare contro le richieste del pontefice, rischiava di aver soltanto l'aspetto di una provocazione grave verso la terrificante suscettibilità di Bonifacio.

alga questa o l'altra possibilità, comunque resta in piedi l'interrogativo se durante le violenze dei Neri e agl'inizi delle inquisizioni verso i Bianchi che avevano avuto cariche pubbliche, Dante lasciasse tempestivamente Firenze ovvero, proveniente da Roma, non stimasse prudente ritornarvi. Da principio Dante avrebbe anche potuto sperare di non essere coinvolto nella repressione; insomma nel dicembre 1301 e nei primissimi giorni del 1302 poteva essere ancora in città. Ma quando la situazione fu chiarissima per tutti, la fuga divenne inevitabile. Infatti già dall'11 gennaio i consigli ordinavano al podestà Gabrielli di non dar seguito o conclusione ai processi lasciati in sospeso dal suo predecessore. La sentenza del 27 gennaio, con cui Cante de' Gabrielli condanna in contumacia Gherardino del fu Deodato nella prima parte del dispositivo, e nella seconda parte Dante, Palmieri Altoviti, Lippo di Becca e Orlanduccio di Orlando, presuppone almeno una quindicina di giorni antecedenti per la citazione, l'istruttoria e il bando (per quanto possa essere stata sommaria l'istruzione stessa). D'altronde Cante aveva già emesso una prima sentenza il 18 gennaio, e dunque dall'inizio di questa precedente istruttoria Dante, che non poteva più illudersi di salvarsi dalla repressione dei Neri, era già fuori di Firenze. La condanna colpiva gl'imputati non soltanto per gli atti di baratteria inerenti all'amministrazione diretta della cosa pubblica (per Dante l'ufficio del priorato), e non solo per essersi opposti agli aiuti a Carlo d'Angiò e a Bonifacio VIII, ma per aver brigato a favore della cacciata dei Neri da Pistoia; il tutto fama publica referente. I condannati sarebbero stati esclusi in perpetuo dalle cariche pubbliche, multati con un'ammenda di cinquemila fiorini piccoli, banditi per due anni al confino quali falsarii et baracterii. Se non si fossero presentati a pagare l'ammenda, "omnia bona talis non solventis publicentur, vastentur et destruantur, et vastata et destructa remaneant in comuni ".

I quattro condannati non si presentarono a giustificarsi e a pagare l'ammenda entro il termine di tre giorni. Trascorse molto più tempo, oltre quaranta giorni, prima che il podestà Gabrielli emettesse il 10 marzo la condanna a morte di Dante e di altri quattordici imputati: "si quis predictorum ullo tempore in fortiam dicti comunis pervenerit, talis perveniens ingne comburatur sic quod moriatur ".