BIOGRAFIA DI DANTE ALIGHIERI


11. La stagione veronese - Pubblicazione delle prime due cantiche



Si può forse affermare che le vicende della vita pubblica di Dante ebbero sino all'ultimo soggiorno in Toscana un peso specifico non superiore a quello dell'opera poetica e culturale ma da essa distinto e in qualche modo rilevato. Ora la storia della Commedia soverchia immensamente e quasi annulla le poche scarne notizie che si hanno o si tenta di avere della vita. Per di più mentre per gli anni precedenti è occorso di registrare numerose stazioni di soggiorno e tutte di breve durata, ora il computo è a largo raggio: un sessennio a Verona: 1312-1318, un triennio e poco più a Ravenna: 1318-1321, con qualche sporadica sortita, in proporzione più volte durante i tre anni di Guido Novello che nei sei presso Cangrande (Mantova, si vedrà, e poi Venezia). Se non apparirà troppo avventurosa l'ipotesi, è doveroso soggiungere che la seconda stagione scaligera conosce un impegno dal quale poco o nulla Dante intende essere distratto: dare un assetto definitivo alle due cantiche, provvedere nei limiti del possibile ad aggiornarne la materia col tramite delle profezie dei dannati e delle anime purganti, decidere i modi della divulgazione ed effettuarla. L'Inferno, secondo il Petrocchi si diffuse nella seconda metà del 1314 e il Purgatorio nell'autunno del 1315.

Nel 1316 il poeta è già al lavoro, alacremente, attorno al Paradiso. Gli studi del Mazzoni sull'epistola a Cangrande, collocandone la composizione "tra il 1315 e il dicembre del 1317", confermano pienamente l'ipotesi che a quell'epoca le prime due cantiche erano divulgate e Dante aveva dato inizio al Paradiso, ma non era ancora in grado d'inviarne parte allo Scaligero, che della terza cantica era il dedicatario. Il tempo di soggiorno di Dante a Verona corrisponde a circa la metà del lavoro difficoltosissimo, e per Petrocchi la chiave per conoscere la data di allontanamento da Verona è proprio il canto XVII, terzo di Cacciaguida, con quell'accorato riassunto poetico di tutte le vicende dell'esilio e l'esaltazione di Cangrande, nel momento del congedo dal generoso signore, da parte di un uomo meno adusato agli encomi all'atto di usufruire l'ospitalità che non a ricordare i benefici quando essi appartengono al passato, e il ringraziamento non appariva attesa di altri favori. L'elogio di Cangrande, venuto a cadere proprio a metà del lavoro, risolve infatti una parte così notevole della vita del poeta quale la fatica del Paradiso, consegna al ricordo i meriti di Cangrande altrettanto come l'epistola a lui diretta attua non una reminiscenza di cose passate, ma l'esigenza di chiarire le ragioni di un lavoro in atto.

Sull'epoca a sulle ragioni della partenza da Verona molto s'è scritto, eppur in modo da lasciare aperte ipotesi diverse quando non contrastanti. Tra di esse il Petrocchi opta per l'anno 1318, quale quello dell'arrivo a Ravenna. È parso a C. Ricci che l'epidemia di peste, imperversante "in Provincia Romandiolae" dal 1318 al 1319, debba aver impedito, o almeno sconsigliato l'accesso alla città di Ravenna in data posteriore ai primi del 1318. L'argomento del Ricci non è perentorio, anzitutto perché la notizia fornita dall'anonimo degli Annales Caesenates non deve di necessità estendersi a Ravenna, i cui cronisti non registrano l'avvenimento così come altri di altre città romagnole, ma anche perché la circostanza è tutt'altro che sicura pur per Cesena, e non notiamo alcuna pausa nell'attività politica di Ravenna, così come osserviamo che il Concilio Provinciale di Bologna tiene regolarmente le sue sedute, a fine ottobre 1317, senza essere rinviato. Elemento certo è che sul finire del 1319 (epoca generalmente accolta per la datazione del carme di Giovanni del Virgilio) Dante è stabilmente "Eridani... mediamne", tanto stabilmente che la dimora ravennate appare al Del Virgilio già in parte consumata dall'attesa della promessa visita e dell'invio di uno scritto amichevole, e comunque impegnata nella conclusione di un'opera da cui Giovanni vorrebbe che l'animo di Dante si distogliesse per darsi all'epica latina. È altresì da scartare l'opinione che Dante si trattenesse a Verona sino al momento di leggere nella chiesa di Sant'Elena il testo della Quaestio, la domenica del 20 gennaio 1320; la fortunata lezione avvenne in occasione di un passaggio di Dante a Verona proveniente da Mantova (existente me Mantuae) e diretto a Ravenna, trovando la città dei Della Scala la sede più adatta per ribadire e perfezionare opinioni espresse nell'ultimo canto dell'Inferno, proprio nella città che aveva visto poco più di cinque anni prima l'ultimo ritocco letterario e la divulgazione di quella cantica.

Quali i motivi della partenza da Verona? Per il Torre Dante si sarebbe mosso da Verona per espresso incarico di Cangrande, interessato al sale di Cervia e desideroso d'indurre Guido Novello da Polenta a resistere ai Veneziani. Giunto come ambasciatore a Ravenna, vi sarebbe rimasto come ospite stabile? Affermare ciò sembra almeno cosa superficiale, e induce e spostare la partenza da Verona almeno al 1320, con problematica identificazione di siffatto incarico con l'ambasceria a Venezia. Le cause della partenza sono da cercare a Verona, non a Ravenna: disagio cresciuto col tempo di un'imposta sodalitas con cortigiani che non stimava e forse ne osteggiavano il temperamento; il tipo di politica 'locale' intrapresa a un certo momento da Cangrande, lontano dalle grandi prospettive 'italiane' cui Dante lo sentiva destinato e nelle quali s'ostinava ancora a credere. Se una causa 'ravennate' ci fu, non fu forse politica, ma culturale: le attrattive di spendere gli ultimi anni in un ambiente di letterati e di dotti quali erano attorno a Guido Novello, poeta anch'egli (e già con qualche successo prima ancora che Dante pensasse di trasferirsi nella sua sede).

A gloria degli anni veronesi non sarà da attribuire soltanto una vicenda lunga e centrale relativa alla Commedia, ma la stesura di altri scritti: la Monarchia e le ultime tre Epistole. Il problema della composizione del trattato politico è complesso oltre ogni grado: si oscilla tra il 1308 circa, secondo il Nardi, e il 1317 "o di poco posteriore", secondo P.G. Ricci, il quale fa leva sull'autocitazione sicut in Paradiso Comoediae iam dixi (Mon. I xii 6), e sull'infittirsi delle diatribe della pubblicistica contemporanea sulla giurisdizione imperiale all'indomani dell'elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316). L'autocitazione, che riguarda Par. V 19-22 Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate / più conformato, a quel ch'e' più apprezza, / fu de la volontà la libertate, potrà essere però tanto del '17 o successivi quanto dello stesso 1316, autunno; in ogni caso è fatta salva la nascita veronese del trattato.

Concordando con il Ricci, la Monarchia segue, e non precede, le tre Epistole, le quali si staccano l'una l'altra di un anno: 1314 Ep. XI, 1315 Ep. XII, 1316 Ep. XIII. Alla morte di Clemente V, 20 aprile 1314, Dante aveva ripreso in forma pubblica il suo costante interesse diretto alle vicende d'Italia, sopita come forse s'era all'annuncio della fine di Enrico VII la sua volontà d'intervenire di persona, e cioè fuori dei proclami espressi dalle terzine della Commedia. Costretto a piangere Romam... viduam et desertam, l'autore si rivolge ai cardinali italiani affinché venga eletto un papa che riporti la sede a Roma. Se, come par certo, la missiva cade nel breve periodo intercorrente tra la convocazione del conclave (maggio, a Carpentras) e l'estromissione dei cardinali italiani (14 luglio), questa fu tra le speranze nutrite dal poeta quella più rapidamente tramontata, sì da accrescere nel lungo periodo di sede vacante (Giovanni XXII venne eletto a Lione due anni dopo) l'amarezza del poeta e il rimpianto per la mancata possibilità di risolvere col tramite di una potestà ciò che l'altro sole non era riuscito a realizzare. Dalla missiva, a dire il vero, non traspare altra illusione che quella di veder rimarginate le ferite inferte al corpo della Chiesa da Bonifacio e quindi si può evincere una serie di proposte che nascono dall'empito profetico-visionario dell'invettiva e riguardano esclusivamente il campo ecclesiale, dacché il corso della Chiesa s'è fatto 'folle' per le negligenze di coloro che hanno mal diretto currum Sponsae, allontanandola dalla strada segnata dal Crocifisso; ma non si può del tutto evitare l'ipotesi che da un papa italiano o di stanza italiana Dante sperasse che potesse nascere un nuovo corso politico, il quale riaprisse il problema dello status guelfo di Firenze, dunque della condizione stessa degli esuli.

Dopo la scomparsa di Enrico l'interesse di Dante per le vicende fiorentine non viene meno, come dimostra la sua attenzione per l'episodio di Montecatini, per le imprese toscane di Uguccione della Faggiuola, la cui alleanza con Cangrande dopo il fallimento della conquista di Pistoia (10 dicembre 1314) può essere passata per le mani di Dante o comunque sancita dal suo parere e accompagnata dal consueto bagaglio di speranze. Nell'anno 1315, poi, i fatti occorsi in Firenze investono frontalmente il poeta, e per di più in connessione con le campagne vittoriose di Uguccione, il quale nel maggio stringe d'assedio San Miniato. Sotto l'urgenza della minaccia militare i governanti di Firenze accettano le proposte del vicario Ranieri di Zaccaria di concedere una larga amnistia a tutti gli esuli, nessuno escluso, previo il pagamento di una parte soltanto (dodici denari per ogni lira) della multa dovuta allo stato sino a un massimo di cinquanta lire, e la rituale offerta nel giorno di s. Giovanni. I Consigli approvano il 19 maggio, e di certo qualche settimana dopo Dante veniva a conoscenza delle possibilità che gli si aprivano dinanzi, tramite gli insistenti inviti di un nipote e di vari amici. A uno di essi, non chiaramente identificabile, Dante risponde immediatamente: giugno-luglio. La missiva del poeta, cioè Ep. XII, avrebbe prodotto senza dubbio grande eco in città, e quindi scrivendo a uno solo Dante sa di rispondere alle lettere aliorum quamplurium amicorum. Non è pensabile ch'egli possa accettare l'infamia della multa e il marchio dell'offerta: il rifiuto è nettissimo. Il 15 ottobre Dante e i figli vengono condannati a morte e alla confisca e distruzione dei beni da un atto di Ranieri di Zaccaria; tuttavia era ancora ammesso il perdono se i rei si fossero presentati "hodie et cras per totam diem". La presentazione dei banditi era manifestamente impossibile per la ristrettezza del tempo, ammesso che ne avessero l'intenzione. Il 6 novembre lo stesso vicario bolla al bando e all'esecuzione capitale Dante e i figli, che avevano spregiato gli ordini del governo. Ma nemmeno ora si può dire veramente che cada in modo irrevocabile la speranza del poeta, conservata sino all'estremo limitare della vita se tra gli ultimi canti del Paradiso sentiamo risuonare altissima l'illusione nel celebre incipit del c. XXV Se mai continga ..., che è certo posteriore di quattro-cinque anni al ribandimento, e forse suscitato dall'attenuarsi dello stato di tensione tra Firenze e le altre città della Toscana, e quindi da un ribaltamento, negli ultimi anni di vita del poeta, del suo programma di ritorno in patria: per troppi anni ha sperato nelle armi dei nemici di Firenze, in una violenta caduta del regime nero e in un tripudiante ritorno dei ghibellini e degli antichi esuli bianchi, e in forza di questa dura speranza ha voluto recidere ogni rapporto tra sé a gli "scelleratissimi fiorentini di dentro", nel cui totale crollo ebbe a confidare. La caduta di Uguccione, il trionfo di Castruccio Castracani, il vicariato fiorentino di Guido di Battifolle, la pace del 1317, il consolidamento dell'economia fiorentina col cambio della moneta (sempre 1317), il trascorrere del '18 e del '19 senza che nulla turbi la pace che regna in Firenze, spensero a poco a poco il risentimento di Dante verso la sua città, cui non sono più profetate terribili sventure. Saranno dunque senza alcuna eco nel suo animo la guerra di Castruccio contro i Fiorentini nel '20, l'alleanza tra costoro e Spinetta Malaspina nella primavera del '21, la creazione di un nuovo ufficio, dei dodici Buonomini, nel giugno '21, la ripresa della guerra contro Castruccio nell'agosto '21: notizie troppo tardive tra l'altro, troppo remote e modeste perché potessero entrare nella superiore sfera spirituale del viator giunto a effigiare i misteri dell'Empireo, così come erano state estranee alla materia delle Egloghe e all'elaborata concezione dell'epistola a Cangrande. In essa s'avverte l'uomo di cultura che svolge un discorso meditato, senza precisi destinatari e fruitori nella cultura dell'epoca, senza i numerosi interlocutori che invece ha il Paradiso: i teologi di scuola. L'epistola a Cangrande non ha un 'pubblico' nella generazione di Dante; potrà averlo più tardi.