BIOGRAFIA DI DANTE ALIGHIERI


10. La spedizione di Enrico VII



Il 27 novembre 1308 i sette Elettori di Germania, radunatisi in un convento di Francoforte, s'accordavano nel designare alla corona imperiale il conte di Lussemburgo, giovane di trentaquattro-trentacinque anni. La notizia dell'elezione giunse in Italia all'incirca nel momento in cui nella cattedrale di Aquisgrana Enrico VII cingeva la corona, 6 gennaio 1309. Per quanto gli ambienti ghibellini italiani e quelli del fuoruscitismo bianco potessero cominciare a nutrire qualche speranza nel giovane imperatore, dopo la conclusione della "guerra di Messer Corso Donati" (Del Lungo), guerra che vedeva come momento di massima esaltazione il subitaneo abbassamento del guelfismo nero coi fatti d'arme e le alleanze infide di Corso Donati coi conti Guidi e con Uguccione della Faggiuola, soltanto con la dieta di Spira, della fine d'agosto del 1310, le sorti del ghibellinismo riprendono a verdeggiare vigorosamente. E, con gli altri, spererà Dante.

La spedizione era stata preceduta da una serie di contatti diplomatici coi signori di varie città dell'Italia settentrionale. L'anticipo di una venuta in Italia di Enrico molto prima della data concertata per l'incoronazione papale in Roma (stabilita per il 2 febbraio 1312) aveva conseguenze politiche assai rilevanti, che non potevano sfuggire all'occhio attento di chi, come il poeta dell'Inferno, vedeva nella discesa imperiale un motivo ben più importante che un semplice atto d'indipendenza e magari di sfida ai voleri di Clemente V. L'ossequio del poeta all'imperatore, benignissimum vidi et clementissimum te audivi, cum pedes tuos manus mee tractarunt et labia mea debitum persolverunt (Ep. VII 9), avviene molto presto: nel soggiorno a Torino, nella tappa di Asti o di Vercelli o di Novara, meglio ancora appena giunto a Milano (23 dicembre), alla vigilia dell'incoronazione reale (6 gennaio 1311), forse durante la stessa cerimonia: per la presenza augusta di Enrico sul suolo del giardin de lo 'mperio, per la radunata di tanti signori pronti a seguirlo, a tra di essi Cangrande della Scala (che aveva mandato ambasciatori presso l'imperatore dal soggiorno ad Asti, 2 dicembre). Dante aveva già assunto una precisa posizione politica con la quinta epistola, che l'humilis ytalus Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus rivolge ai signori e ai popoli d'Italia, databile poco prima dell'arrivo dell'imperatore e poco dopo l'enciclica Exultet in gloria del settembre 1310, così come precede certamente l'incontro personale con Enrico: dunque ottobre-novembre 1310. Mentre le epistole seguenti, VI e VII, fissano il luogo di scrittura, per la V tutte le possibilità sono aperte, anche che la missiva, elaboratissima e dunque non di rapida stesura, pur rifacendosi in tanta parte alle concezioni espresse nel libro IV del Convivio, possa essere stata scritta in terra francese (sebbene la designazione di sé come ytalus si giustifichi con la specie dei destinatari e non abbia stretto rapporto con la qualificazione di nazionalità da parte del mittente), al momento del rientro in Italia e non invece all'atto di partire dalla Toscana incontro a Enrico, ovvero alla vigilia dell'udienza imperiale, come sommo biglietto di presentazione di un esule non certamente noto a Enrico, ignaro di cose letterarie, e non sappiamo quanto edotto di minute vicende fiorentine quali quelle di un priore discacciato dalla patria.

Quei mesi furono d'intensa meditazione del pensiero politico. In Ep. V emerge risoluta la consapevolezza del carattere divino dell'impresa di Enrico (cum sit Caesar et maiestas eius de Fonte defluat pietatis § 7 ) e quindi dell'investitura imperiale, in quanto l'Impero è predisposto dalla Dei ordinatio e spazia nel mondo intero; Cristo per attuare totalmente l'incarnazione doveva essere giudicato da chi gestiva il potere vicario di Cesare; colui che ciò non intende, è sottoposto al veleno della cupidigia terrena. Il tono di aspettazione del vaticinio farebbe ritenere più probabile che la missiva venisse divulgata prima ancora che Enrico varcasse il Moncenisio, ma i lenti tempi di tradizione delle notizie e quindi anche dei testi possono consentire una datazione anche nell'autunno avanzato, certo non dopo che i signori d'Italia si furono recati a onorare l'imperatore. L'irrefutabile prova dell'epistola casentinese del 17 aprile, col ricordo dell'incontro del poeta col suo monarca, contrasta con l'affermazione del Boccaccio secondo cui Dante sarebbe rientrato da Parigi mentre Enrico è all'assedio di Brescia (maggio-settembre 1311); e inoltre la precedente epistola agli scelleratissimi Fiorentini e i seguenti biglietti a nome della contessa di Battifolle fanno pensare a un interesse precipuamente volto alle cose di Toscana, da un lato, e dall'altro a una certa durata del soggiorno in Casentino (dove non può essersi recato come messo di Enrico, ché anzi scrivendo tam pro me quam pro aliis mostra di esser portavoce di tutta la comunità degli esuli fiorentini). È da qualche mese in questa regione, forse già dal gennaio, se il 31 marzo, pridie Kalendas Apriles , avverte la necessità (così per Ep. VII e X) di adornare l'epistola con una precisazione di tempo e luogo, in finibus Tusciae sub fontem Sarni, a documentare, come in Ep. X, una sorta di pubblica affermazione di legame, per quel poco che durerà, col signore di Poppi, Guido di Battifolle, perpetuando un'ospitalità con tutta la famiglia dei Guidi che gli aveva concesso anni prima momenti di relativa serenità (la canzone Amor, da che convien) e d'intenso lavoro attorno all'Inferno. Il ramo casentinese però, nonostante la presenza di così illustre patrocinatore, si va mostrando e si mostrerà ancor più nell'autunno successivo piuttosto tiepido verso l'imperatore che non i consorti di Romena e di Modigliana. Si deve riflettere che fu questa tiepidezza a consigliare Dante sul finire dell'anno a cambiare dimora, e degli abitanti a serbare pessimo ricordo, i brutti porci di Purg. XIV 43. Mentre Enrico VII riceveva a Pisa l'omaggio dei signori di Toscana, Guido di Battifolle (il futuro vicario di Roberto d'Angiò a Firenze) e in genere il ramo casentinese della consorteria s'erano ormai riavvicinati ai Fiorentini e apprestavano armi per difenderli.

Tuttavia, finché Dante fu a Poppi, l'ambiente politico si mostrava propenso a che un suo illustre ospite si facesse banditore delle finalità politiche della spedizione imperiale, rampognando i Fiorentini della loro superba ostilità e vaticinando terribili castighi (Ep. VI), incitando (Ep. VII, del 17 aprile) Enrico a non indugiare nelle terre dell'Italia settentrionale, irretito in angustissima mundi area, e a calare fulmineo sulla Toscana, dove s'annida la volpe sicura dai cacciatori. Da Poppi compone e trascrive tre lettere che la moglie di Guido, Gherardesca di Battifolle, invia all'imperatrice Margherita (Ep. VIII, IX, X) scritte tra la fine di aprile e il 18 maggio: indispensabile officio di un dotto dittatore ai signori che lo ospitano e lo tollerano anche soltanto per esprimere auguri e consensi per le imprese vittoriose di Enrico: occupazione di Cremona, inizio dell'assedio di Brescia. E non dovettero essere le sole missive che Dante ebbe a scrivere nel 1311 in Casentino, se a questo periodo si può far risalire l'epistola che avrebbe inviato a Cangrande della Scala in merito all'altezzosa risposta che i Fiorentini avevano dato all'imperatore; epistola perduta ma che ebbe a vedere Biondo Flavio, e variamente significativa, anche perché scritta in previsione della necessità di riallacciare i rapporti col signore di Verona, conosciuto giovinetto nel 1303-1304 e di nuovo incontrato durante i festeggiamenti milanesi in onore di Enrico. Il soggiorno in Casentino si fa dunque sempre più rischioso e precario. Il Boccaccio accenna nel Trattatello in laude di Dante a una sosta "col conte Salvatico in Casentino"; potrà essere possibile che Dante beneficiasse dell'ospitalità del conte Guido Salvatico di Dovadola nel 1307, non nell'11, poiché anche e soprattutto Salvatico s'era nettamente schierato coi Neri; si è supposto in via subordinata che il soggiorno nascesse dalla necessità di persuadere Guido a volgersi contro i Neri nel 1307, a favore di Enrico nell'11, ma l'ipotesi pare esilissima.

Non avvenne che l'imperatore ascoltasse i consigli e le implorazioni di Dante e di altri come lui: "invece di dirigersi su Bologna e sulla Toscana, seguendo non una saggia riflessione, ma l'impeto dell'ira, mosse verso Nord contro Brescia, che si trovava anch'essa in rivolta, e per mesi si accanì nella lotta contro una città, la conquista della quale non poteva avere alcun valore decisivo. Quando alla fine ci riuscì, egli stesso fu un vincitore vinto" (Davidsohn). Il 15 maggio Enrico s'era mosso per Brescia; il 18 settembre, soltanto, la città cadeva, e l'imperatore nella sua così ritardata marcia verso il centro dell'Italia devia su Genova, dove giunge nell'ottobre (e dove il 14 dicembre veniva a morte, di peste, l'imperatrice Margherita). Nel contempo spedisce ambasciatori a Firenze per imporre l'obbedienza; 25 ottobre: i messi giungono alle porte della città, ma non riescono a stabilire alcuna intesa col governo nero, anzi sono costretti a fuggire. L'oltraggio inflitto agli ambasciatori spinge Enrico (20 novembre) a imbastire un regolare processo contro la città, e per esso furono escussi vari testimoni; non v'è indizio che Dante fosse chiamato a deporre, ma la sua posizione in seno ai governanti fiorentini non era certo migliorata dopo le pubbliche dichiarazioni delle epistole casentinesi, note ai Neri. Quando Firenze, con la cosiddetta 'Riformagione' di Baldo d'Aguglione, aveva concesso l'amnistia (2 settembre 1311) a vari guelfi al bando - e il motivo essenziale fu forse quello di procacciare nuove entrate all'erario cittadino con l'incasso delle penalità degli ex condannati - Dante è tra gli esclusi, coi figli di Cione del Bello e molti altri anche dello stesso sesto di Porta San Pietro.

A metà febbraio del 1312 Enrico parte da Genova; il 6 marzo a Porto Pisano entrò in Toscana. L'elemento di fatto dell'incontro del Petrarca fanciullo con Dante suole, per maggiore consenso degli studiosi, cadere in questa evenienza, a Genova nel 1311. Dal punto di vista strettamente dantesco l'episodio, collocato a Pisa tra la seconda metà di marzo e l'aprile del 1312, dà maggiori garanzie, anche in ordine alla convergenza dei motivi che avrebbero potuto spingere Dante e ser Petracco (che il figlio illustre vorrà più tardi innalzare a un rango di esule pari a quello dell'Alighieri) a tentare ancora una volta le intenzioni di Enrico VII in ordine a un'immediata spedizione contro Firenze, e, a seguito della delusione di ciò, allorché l'imperatore prende la strada di Roma, allontanandosi dall'obbiettivo che più premeva al padre del Petrarca e a Dante, la necessità per Petracco di prendere la strada di Marsiglia e di Avignone, per Dante di allontanarsi dalla Toscana. Gli ostacoli a che Dante potesse aver "osato soggiornare a Pisa al tempo della discesa imperiale", lui che aveva lanciato la terribile invettiva contro la città di Ugolino, cadono al semplice ragionamento che a quell'epoca l'Inferno non era ancora pubblicato. L'esclusione dalla amnistia del precedente 2 settembre e le lontane cause del ribandimento del 1315 hanno più forte rilievo quando si consideri che il reo non era lontano dai confini di Firenze, anzi s'era spostato dal quasi neutrale Casentino alla nemicissima città di Pisa. Siamo tuttavia nel campo delle ipotesi, ma poiché Dante non è, il 7 marzo del 1313, tra i fuorusciti fiorentini presenti al campo di Enrico VII, che da mesi è fermo a San Casciano a poi nella cittadella di Poggibonsi, ogni possibilità di dedurre che Dante era già lontano dalla Toscana potrebbe risultare aperta alla discussione, non trascurando che, se i biografi non sogliono farlo assistere, per antica tradizione, agli ultimi atti della tragedia che si chiude a Buonconvento, il momento più propizio a che il poeta, già in parte sconcertato dalla lunga fierissima resistenza dei Fiorentini, cominciasse a provare il peso della disillusione a pensasse a migrare altrove, è propriamente quello della partenza di Enrico verso Roma, o, se si vuole, quando l'imperatore inferisce la seconda e più grave delusione ai fuorusciti togliendo l'assedio (1 novembre). A questo ostano le parole del Boccaccio, il quale scrive che alla morte di Enrico VII "generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi e massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, a che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava" (Trattatello). La notizia è certamente erronea, poiché non è pensabile un precoce arrivo a Ravenna, all'indomani del 24 agosto 1313, a meno che il Boccaccio non pensasse ad altre soste in altre città della Romagna prima di far giungere il poeta presso Guido Novello da Polenta.

Alla metà del 1312 Dante ritorna a Verona, dove Cangrande ha assunto un ruolo sempre più centrale nella politica ghibellina d'Italia. Giungendo nella città scaligera, il poeta recava con sé un messaggio ben più importante di ogni suo atto politico ufficiale: il testo delle prime due cantiche. Gli anni durissimi di alterni stati d'animo, tra speranze e sconforti, tra spostamenti improvvisi e scomodi indugi di sede in sede variamente ospitali, non avevano menomamente scalfito l'intenso travaglio compositivo del poema, che forse aveva avuto nel periodo del Casentino il lasso di tempo più lungo per la redazione del Purgatorio, sul quale tuttavia non erano mancati larghi squarci di applicazione anche nei successivi spostamenti. Una cronologia particolareggiata sarà sempre impossibile, ma individuare due grandi isole di lavoro, Lucca per l'Inferno, Casentino per il Purgatorio, dovrà essere ritenuto con sufficiente approssimazione un punto fermo nella genesi della Commedia. Così vicino a Firenze, il tono 'cortese' raffinatamente commosso del Purgatorio reperisce momenti d'intensa animazione affettiva nel rimpianto per gli amici della giovinezza, da Casella e Belacqua a Forese e a Nino Visconti, nel prodigioso recupero e totale riscrittura di forme e immagini della giovanile ispirazione stilnovistica, soprattutto nel ricordo dell'uno e l'altro Guido, delle sue conclamate passioni per la musica e per le arti figurative, d'incantati paesaggi naturali, dal terribile teatro di battaglia di Campaldino alle memorie di Lucca e della Lunigiana: eccezionale summa di tutti gli anni di Toscana prima e dopo l'esilio, risolta infine e sublimata col ritorno di Beatrice, non dieci come nella finzione letteraria, ma vent'anni dopo la sua dipartita. Recuperare quel mondo giovanile o risolvere quei drammi di 'memorie lontane' o comprendere ancora una volta quel mondo della vicina eppur lontana Firenze furono per Dante disagevoli operazioni di reinvenzione poetica, tutte svolgentisi sopra un amplissimo territorio di reazioni umane, di affermazioni politiche, di rancori e corrucci terreni, perciò riconducibili in qualche modo alle linee più sicure e cognite dell'animo di Dante in quegli anni di accadimenti drammatici dei quali la spedizione di Enrico VII è il culmine.

Invece il ritorno a Beatrice, la misura ascetica del Purgatorio dal rito liturgico del primo canto alla mistica processione, ai misteri della Grazia che promanano dalla comparsa di Matelda e dal ritorno della gentilissima, sono fatti che non hanno più rapporto diretto col mondo del 1309, 1310, 1311, 1312, coinvolgendo fenomeni unici e irripetibili di una profondissima esperienza religiosa. Se è anzi consentito spingersi oltre e temerariamente nel campo delle ipotesi, si dovrebbe inferire che la toscanità degli episodi sino al XXIV canto del Purgatorio trova diretto riferimento con l'ansioso impegno di Dante in finibus Tusciae, e che al contrario il distacco dal mondo e l'assunzione di pure responsabilità spirituali coincide col momento in cui il poeta vede l'imperatore prendere la strada di Roma, allontanarsi da Firenze, obiettivo risolutore della spedizione per le speranze di Dante, sì ch'egli si può sentire ormai svincolato dalle contingenze ed entrare nella divina foresta , percorrere con lenti passi la strada verso il fiume di Lete, iniziare un viaggio ancor più importante, rivivere e attualizzare la riapparizione di Beatrice con una forza di suasoria morale ben più 'contemporanea' che non i fatti contingenti della politica, superati nettissimamente dall'urgenza di celebrare in tutto e per tutto il proprio risorgimento spirituale all'alba di quella teofania a lui solo concessa, insomma di aver fatta parte perstesso in una rivelazione che possiede pur carattere carismatico e profetico e dunque trasferisce gl'interessi del poeta dal piano ascetico-storico a quello della più alta mistica, vent'anni dopo la promessa resa al termine della Vita Nuova, dieci anni dopo l'esilio.