BIOGRAFIA DI DANTE ALIGHIERI
Anche se già da questo momento è scarsissima la sua fiducia nell'abilità diplomatica e nell'energia guerresca dei Bianchi, siamo ancora lontani dalla rottura, ed egli, d'altronde, non ha alcuna possibilità di sviluppare un proprio disegno politico. E giunge al punto di trovar conveniente, pur di tornare in patria, l'alleanza che a Gargonza prima, poi a San Godenzo in Mugello, i Bianchi sconfitti stringono coi ghibellini da tantissimo tempo in esilio. Il che fu indubbiamente un colpo di scena, sul fronte politico, l'inizio di un sistema di alleanze che sembra poter recare qualche frutto con la conquista dei castelli di Figline edi Piantravigne (primavera del 1302) e 'aiuto considerevolissimo di una potente consorteria qual è quella degli Ubertini, per rivelarsi poi un grosso sbaglio politico, dacché l'ingresso dei ghibellini nel territorio fiorentino rinfocola le preoccupazioni di altre città guelfe di Toscana, consente a Carlo di Valois di ritornare sui propri passi, pone Bonifacio viii in condizione di raddoppiare il suo appoggio ai Neri di Firenze, e soprattutto mette costoro in grado d'incrudelire con le citazioni, i bandi, le imputazioni, le condanne. Che Dante sia nella lista dei condannati a morte è prova che, come dice il Bruni, sia stato presente all'"accozzamento" di Gargonza, e comunque ch'esso sia avvenuto con l'appoggio e per iniziativa anche di lui. Forse fu soltanto una radunata informale, senza che tutti .i capi vi partecipassero; mentre San Godenzo è altra cosa. L'8 giugno, nella pieve mugellana, convengono con Dante sedici fiorentini che s'impegnano a risarcire il casato degli Ubaldini di ogni danneggiamento che potesse derivare ai loro beni dall'imminente guerra contro Firenze. La radunata di tutto lo stato maggiore dei Bianchi, con Vieri de' Cerchi in testa, è resa ancora più pericolosa, sulle falde dell'Appennino e a poche miglia dalla città di Firenze, dalla contemporanea presenza di famiglie ghibelline che da decenni attendevano l'occasione per una guerra senza quartiere contro i governanti guelfi 'intrinseci'; tra di essi, particolarmente denso di significato l'arrivo degli Uberti, nella persona soprattutto di Lapo. La promessa di rifusione dei danni e l'ipoteca di tutti i beni dei Bianchi e dei ghibellini a vantaggio degli Ubaldini erano atti indubbiamente necessari dinanzi alla prospettiva di una guerra lunga, costosa e rovinosa; ma non certo poté essere l'unico argomento della radunata di San Godenzo, soltanto quello apparente e verbalizzabile. In realtà si trattò di stabilire tutti i modi dell'organizzazione e condotta della guerra, i limiti della resa che poteva esser chiesta ai Neri sconfitti, soprattutto la futura possibilità di un'alleanza politica tra due partitanti così lontani negl'ideali e nei programmi, e che non so quanto avrebbe potuto convivere nel tempo e, in particolare, far rivivere gli ordinamenti democratici ch'erano stati della tradizione dei Bianchi dinanzi ai tentativi di restaurazione d'istituti e costumi aristocratico-feudali che i ghibellini avrebbero cercato di porre in opera, riuscendo miracolosamente a ripetere una nuova Montaperti a distanza di 43 anni. Ma il miracolo non si ripeté.. Dopo i successi iniziali di Serravalle, Piantravigne, Gaville e Ganghereto, dopo la sollevazione di Montagliari e Montaguto, cominciano i primi rovesci, e i confederati sono costretti a retrocedere sul fronte del Mugello e di Romagna, e perdono Piantravigne (metà luglio) per tradimento di Carlino de' Pazzi, che indusse a tradire anche tre dei suoi congiunti, e pattuì col nuovo podestà fiorentino, Gherardino da Gambara, in 4000 fiorini d'oro il prezzo del suo tradimento. Altri successi dei confederati (gli Ubaldini giungono sino a San Piero a Sieve) restano però limitati all'area del conflitto, e l'agognata occupazione di Firenze sembra lontana nell'autunno, quando con l'inizio del maltempo le operazioni militari sono sospese. Non pare plausibile che Dante scendesse sul campo di battaglia, ma è certo che non si tenne lontano dalla zona degli scontri, fino al momento in cui pensò più opportuna la sua presenza in un luogo dove meglio si potesse attendere alla preparazione delle ostilità del 1303, sia nel campo militare, sia in quello, a lui più congeniale, delle intese politiche. E si reca a Forlì (autunno del 1302), alla corte di Scarpetta degli Ordelaffi, il cui ghibellinismo, tradizionale nella famiglia, non vietava di poter dar mano alle ambizioni degli esuli bianchi, dei quali diviene il condottiero. La presenza di Dante alla corte di Scarpetta deli Ordelaffi non è dubitabile per la testimonianza di Biondo Flavio, che l'aveva appresa da alcuni scritti (probabilmente una cronaca) di Pellegrino Calvi, cancelliere del signore di Forlì. Eliminata definitivamente l'ipotesi del Troya, che datava al 1308 il soggiorno forlivese del poeta, si deve ormai concordare col Barbi la data dei primi del 1303 quale quella in cui Dante poteva aver provveduto a dettare i documenti di cui parlò il Calvi, durante gli ultimi preparativi della guerra mugellana (primavera del 1303); ma credo si possa affermare con eccellente probabilità che l'arrivo a Forlì sia di qualche mese avanti, onde poter preparare la spedizione. Anche la guerra della
primavera del 1303 si risolse negativamente per i Bianchi e
per Dante, il quale fu certo con Scarpetta durante tutto il
periodo delle ostilità, forse anche in campo,
presente all'espugnazione di Castel Puliciano, se non
proprio al fulmineo e vittorioso sopraggiungere di Fulcieri
da Calboli, nuovo podestà di Firenze. Un documento
successivo pone problemi precisi: ché il nome di
Dante non è tra i firmatari dell'atto (18 giugno
1303) di obbligazione a pagare i mercenari della guerra
mugellana, mutuo contratto a Bologna con Francesco
Guastavillani. Dante era già a Verona? E v'era in
qualità di ambasciatore dei Bianchi presso gli
Scaligeri, ovvero come semplice rifugiato politico? Biondo
Flavio dà notizia dell'ambasceria veronese, e sebbene
le sue affermazioni siano erronee in parte, poiché
sarebbe Cangrande l'oggetto della missione diplomatica a
favore dei Bianchi e dei ghibellini (il che non è
possibile, data la troppo giovanile età, in quel
tempo, del futuro vicario imperiale: Cangrande aveva allora
dodici anni), la testimonianza dello storico forlivese
è importante per confermare la venuta a Verona e la
spedizione mugellana infaustamente conclusa, quando "i
bianchi e ' ghibellini usciti rimasero rotti a sciarrati"
tra il maggio e il giugno. Per quale motivo venne a cessare
l'ospitalità veronese? Non solo per la morte di
Bartolomeo, ma soprattutto per il sopraggiungere, alla corte
scaligera, di una notizia che dovette sconvolgere l'animo di
Dante in modo non dissimile di quel che accadrà
più tardi con la discesa di Enrico VII: il nuovo papa
Benedetto XI nominava il 31 gennaio proprio legato a
paciaro in Toscana il cardinale Niccolò da Prato con
l'incombenza di metter pace nella città di Firenze,
nuovamente dilaniata dai contrasti, ora tra Corso Donati r
Rosso della Tosa; né il buon Benedetto, spedendo il
paciaro a Firenze ai primissimi di marzo, nascondeva lo
scopo di riportare i Bianchi in città, per quanto
l'alleanza di costoro coi ghibellini rendesse molto
difficoltosa l'iniziativa (il 17 marzo i consigli fiorentini
concedevano la balìa al cardinale). L'opera svolta da
Dante nel seno della Universitas Alborum era stata
troppo importante, e ancor adesso estremamente prestigiosa,
perché egli non sentisse il dovere, appena giunta a
Verona la notizia della mossa papale, di porsi subito in
cammino per la Toscana. Allorché Niccolò
Albertini manda con lettere un confratello presso
l'Università, Dante è di nuovo coi Bianchi, e
per il loro capo Alessandro (o Aghinolfo) e per il Consiglio
stila la lettera al cardinale (verso i primi di aprile),
secondo attesta il cod. Vaticano Palatino Latino 1729:
lettera che deve intendersi "la notificazione ufficiale
della avvenuta delibera formale, presa da tutti i
fuorusciti, nella loro organizzazione e per le loro
rappresentanze, di affidarsi in totum al legato pontificio, compromettendo in lui ogni trattativa di pace" (F. Mazzoni). Altra prova della presenza
di Dante in Toscana è data da Ep II, del
maggio-giugno 1304, nella quale il poeta invia a Uberto e a
Guido conti di Romena una missiva di cordoglio per la morte
del loro zio, ul conte Alessandro. In quale località
toscana Dante si trovasse al ritorno da Verona, non è
facile congetturare: forse in più d'una, e senza
forse tra di esse è Arezzo, giacché il 13
maggio 1304 qui Francesco Alighieri con la garanzia di
Capontozzo dei Lamberti, anch'esso fiorentino, prometteva di
restituire un prestito di dodici fiorini d'oro ottenuto
dallo speziale Foglione di Giobbo. Francesco, che aveva
dimora e lavoro fiorente in patria, non aveva alcuna
necessità di contrarre mutui in altro luogo, ed
è quindi chiaro che il prestito venne stipulato per
"sovvenire alle immediate necessità del suo grande
congiunto" (Mazzoni). E ad Arezzo Dante seguì con
ansiosa speranza, poi con sempre crescente sfiducia, il
succedersi degli eventi, concludendosi con la definitiva
rottura di lui coi colleghi di Parte, poi spregiati con la
qualifica di compagnia malvagia e scempia,
poiché il distacco dalla compagnia non trova altro
posto che alla vigilia dell'improvvida spedizione in Val di
Mugnone, alle porte di Firenze: spedizione che Dante non
volle e che in ogni modo tentò di differire.
Incalzante la serie dei fatti: 18-20 aprile, arrivo dei
delegati Bianchi e di alcuni fuorusciti ghibellini; 26
aprile: pace di Santa Maria Novella; qualche giorno dopo la
riconciliazione tra il comune e le casate degli Ubertini,
dei Griffoni a dei Gherardini di Parte bianca; 9 maggio e
ss.: viaggio del paciaro a Prato e a Pistoia, e congiura
pratese di Corso Donati; 29 maggio: lettera di Benedetto XI
ai Fiorentini, osanna popolari ai Bianchi ma anche ad alcuni
vecchi ghibellini, tra cui Lapo nipote di Farinata; tumulti
dei Neri e resistenza dei Cerchi e dei Cavalcanti; 8 giugno:
il paciaro consiglia Bianchi e ghibellini a uscire da
Firenze; 10 giugno: i Neri appiccano il fuoco a varie case
della città; stesso 10 giugno: Niccolò da
Prato lascia Firenze; ultima decade di giugno: i Neri
consolidano il loro potere in città. Si può
reputare che in tutto questo periodo Dante, coi capi della
fraternita bianca, non si movesse da Arezzo: eccellente
luogo per seguire lo svolgimento dei fatti ed eventualmente
per intervenire, anzi, come si spera nella prima fase delle
trattative, per rientrare pacificati in patria. Tra fine
giugno e primi di luglio la Universitas Alborum si
consulta sul da farsi, ed è doveroso congetturare che
Dante fosse tra i più attivi consiglieri, anzi
riprendesse la pienezza dei suoi poteri e obblighi
consiliari. Ma la situazione era profondamente mutata da
quella di cui Dante era stato protagonista nel biennio
1300-1301; il poeta, forte dell'esperienza politica che ha
contratto in tutto questo periodo e maturato durante il
pacato momento del soggiorno veronese, non è
più nel rango d'imperterrito oltranzista della lotta
senza quartiere. Ha conosciuto molto bene, ormai, anche
l'ambiente dei ghibellini "usciti", e sa che coi colpi di
mano non si può far molto; che c'è bisogno di
una situazione politico-diplomatica del tutto solida e ampia
per poter sperare di rovesciare la Signoria nera. I Bianchi
discutono accanitamente sul da farsi, e Dante si trova solo,
o quasi solo, a combattere gl'ingenui e pericolosi ottimismi
dei suoi colleghi di Parte. Viene messo in minoranza, e
l'Universitas decide di riprendere le ostilità
scendendo in campo contro i Fiorentini 'intrinseci'.
È questo il momento in cui Dante si distacca dalla
compagnia malvagia e scempia, e arroga a sé il
vanto di far parte per sé stesso. La morte di Benedetto XI, il 7 luglio, rende ancor più precaria e pericolosa l'iniziativa dei Bianchi. Si leva il campo. Il 19 luglio i Bianchi e i ghibellini apparvero sulle alture a nord della città; il 20 luglio ha luogo la disfatta della Lastra in val di Mugnone. Per quanto il distacco di
Dante dalla compagnia dati qualche settimana avanti
la disfatta della Lastra, forse il poeta non lasciò
subito Arezzo, ma di qui seguì lo svolgimento
dell'impresa che aveva previsto fallimentare: da Arezzo,
dove la numerosa colonia di esuli fiorentini gli dava ancora
la parvenza di poter far qualcosa di diverso e di
costruttivo sul piano politico, e in effetti di poter
sventare sino all'ultimo la partenza delle truppe per il
confine dello stato di Firenze, per tentare operazioni
diplomatiche in direzione diversa, per poter continuare a
mantenere rapporti con la famiglia per il tramite del
fratellastro. Appresa la notizia della disfatta, vanificata
la speranza di rientrare in patria, Dante sente
l'inutilità della sua presenza in Toscana; decide di
esulare in Italia settentrionale. Non può tornare a
Verona, dove signoreggia l'avverso Alboino, ma può
sembrargli confacente la dimora in qualche corte che, per
affinità d'ideali e di munificenza verso i dotti e i
poeti, possa apparire consimile a quella ch'era stata la
Verona nel tempo del Gran Lombardo. S'aprono anni nei
quali è difficilissimo seguire le vicende di Dante,
sovente impossibile; ma, pur con tutte le incertezze a le
cautele che l'arduo caso pretende, l'ipotesi di un non breve
soggiorno a Treviso, alla corte di Gherardo da Camino,
s'affaccia come la più probabile, stante il ripetuto
elogio del buon Gherardo, dalle pagine del
Convivio alle terzine del Purgatorio. Gherardo
viene a morte nel 1306, e quindi un soggiorno dantesco
dall'estate del 1304 alla metà del 1306 non è
impossibile, sempre che non si voglia considerare che quei
due anni non siano trascorsi esclusivamente nella
città della Marchia Tervisina, ma comprendano
una serie di spostamenti, più o meno prolungati nel
tempo; tra Padova e Venezia e altre città non
lontane. Ognun sa quanto le prime due cantiche della
Commedia, e in particolare l'Inferno, siano
colme di reminiscenze a allusioni alla zona del Veneto.
Dalle reminiscenze letterarie, non solo del poema maggiore,
è possibile sostenere la presenza di Dante nel
Veneto, né si potrebbe affermare in quale altro
periodo avanti.la composizione e divulgazione
dell'Inferno possa essere ipotizzato fuori del
biennio 1304-1306, prima di ritrovare con certezza il poeta
mentre sale l'erta (6 ottobre 1306) che da Sarzana porta a
Castelnuovo, come procuratore di pace presso il vescovo di
Luni da parte dei nuovi suoi ospiti Franceschino, Corradino
e Moroello Malaspina. L'annosa controversia tra i Malaspina
e i vescovi-conti di Luni nasceva dalle continue pressioni
che la consorteria magnatizia effettuava sulle terre sotto
il diretto dominio vescovile. Se Dante accetta la nomina a
procuratore, vuol dire che egli è sul posto da qualche tempo per poter fruire della fiducia di tutti e tre i rami dei Malaspina, e già doveva aver svolto altre meno importanti incombenze consiliari. E deve aver accettato di buon grado, poiché la pace col vescovo Antonio consentiva non soltanto di por fine allo stato di ostilità tra i due poteri, ma di rafforzare la posizione dei Malaspina nei riguardi del guelfismo toscano non precludendo loro la possibilità di un benevolo aiuto da parte delle autorità ecclesiastiche della Toscana, costituendo infine un precedente per quel che sarà ancora per vari anni l'assillo del procuratore: il ritorno a Firenze. Lo scambio di sonetti tra
Cino (Cercando di trovar minera in oro) e Dante in
nome del marchese Moroello (Degno fa
voi trovare ogni tesoro), e di quelli diretti tra i due
poeti non è necessariamente riconducibile al
1306, ché vige anche l'ipotesi di una successiva
permanenza di tutti e tre i corrispondenti alla corte di
Enrico VII, al momento della presenza di Moroello durante la
pacificazione di Vercelli (ottobre 1310). Per quanto si
debba ricordare con somma cautela l'episodio narrato dal
Boccaccio (ritrovamento in Firenze dei primi sette canti
dell'Inferno e inoltro delle preziose carte da Gemma a Dino Frescobaldi, il quale le recapita a Moroello affinché questi persuada l'autore a riprendere il lavoro interrotto con l'esilio), il caso opinato può riguardare tanto l'autunno del 1306 quanto un'età immediatamente precedente, mai un periodo così tardo come quello dell'incontro di Vercelli. I termini del soggiorno in
Lunigiana non furono molto brevi, se poco dopo la partenza,
dunque nel 1307, offertosi il Casentino come terra di breve
sosta al peregrinare del poeta (forse ospite del come Guido
di Batifolle), egli a limine suspiratae postea curiae
separato posa i piedi iuxta Sarni fluenti, e gli
appare una donna meis auspittis undique moribur et forma
conformis (Ep IV 2), come legge la missiva nuncupatoria
della canzone Amor, da cbe convien pur cb'io mi
doglia. Si potrebbe in extremis postergare l'Ep
IV a un momento successivo al soggiorno lucchese, quindi
subito dopo il 1308; ma non se ne vede proprio la
necessità, ché il tono encomiastico della
lettera tradisce il ringraziamento per un'ospitalità
recente e ancora bisognosa di elogi. Lucca, invece,
può star bene dopo l'episodio casentinese,
perché ne riceve luce, in fondo, anche il documento
della presenza del figlio 'ipotetico' Giovanni, non solo ma
con gran parte della famiglia; lo stesso Barbi, oltre
ammettere temporanee soste a Lucca anche prima del periodo
che stiamo trattando, non è lontano dal
ritenere che Lucca possa essere stata la sede stabile di Gemma Donati e dei figliuoli, appena il piùgiovane dei maschi, Iacopo, ebbe raggiunto i quattordici anni. II massimo del soggiorno lucchese, raddolcito dall'ospitalità di Gentucca, si muove dalla fine del 1307 o dai primi del 1308 ai primi del 1309, giacché con editto dei 31 marzo 1309 il comune di Lucca faceva divieto agli sbanditi a ai condannati fiorentini di permanere in città e nei territori limitrofi. Nel famoso luogo di
Cv I III 4, in cui parla della sua pena d'essillo
e di povertate, Dante fa cenno a sue molte
peregrinazioni, tutte in terra italiana, senza far
riferimento a viaggi oltremontani, ché, se essi vi
fossero stati, avrebbe pur aggiunto gravezza maggiore alle
sofferenze dell'esule, non lontano soltanto dalla sua
città, ma dalla stessa Italia. La 'leggenda' del
viaggio a Parigi non potrà essere situata,
dunque, che successivamente all'interruzione del
trattato filosofico, ovvero, in tempo più stretto,
alla scrittura del primo libro, e precedentemente alla
spedizione italiana di Enrico VII. Le continue
peregrinazioni del legno sanza vela e sanza governo
(§ 5) non rallentano mai l'attività letteraria
di Dante, cui possono essere assegnati in questo primo
settennio di esilio opere come il De vulgari Eloquentia,
il Convivio, rime varie, e tutto o quasi
l'Inferno.. Se osserviamo con attenzione i due
momenti meno turbati e più propizi al lavoro, l'anno
scaligero 1303-1304 e il triennio lunigiano-toscano
1306-1308, si sarebbe tentati di suddividere le tre parti
fondamentali di questa produzione in un modo all'incirca
come il seguente: a Verona il De vulg. Eloq., la cui
datazione canonica, per motivi interni al testo, è
del 1303-1304; in Lunigiana il Convivio (1304-1307);
a Lucca l'Inferno nella sua completezza esecutiva,
non nel disegno a nella verseggiatura. Ovviamente è
questo un discorso meramente schematico, giacché per
vario tempo la composizione del trattato linguistico e
quella dell'enciclopedia filosofica s'intrecciano e si
completano a vicenda, e non si può far iniziare
sic et simpliciter la composizione dell'Inferno
al momento della 'crisi' che cade al termine dell'assai
complesso commento alla canzone della nobiltà. A
parziale prova di quanto s'è detto, è
conveniente osservare che la stesura del De vulg.
Eloq. non suppone un lavorio concettuale e culturale
dello stesso genere di quello del Convivio, e quindi
può essere stata opera sollecita e di getto,
altrettanto rapidamente e bruscamente interrotta come
principiata, mentre la chiusura del IV libro del
Convivio avviene, si direbbe, col punto fermo; e in
ciò è forse da intuire che la speranza di
poter affidare a un'opera letteraria quale il
Convivio, e non soltanto a evenienze politiche, una
concreta possibilità di ritornare dignitosamente in
Firenze venga sostituita da una speranza ancora maggiore,
affidata a una grandiosa visio mistica. I testimoni primi e primari del viaggio di Dante a Parigi sono il Villani ("a poi a Parigi, e in più parti del mondo"), il Boccaccio ("e già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave l'andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta gloria di sé disputando più volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori"), il Pucci, il Buti, Benvenuto, il Serravalle, ecc.; tace, invece, Pietro, ae tace Leonardo Bruni. Non mancheranno, tra gli studiosi recenti, ipotesi diffeerenti quanto al momento del viaggio. I contributi di gran lunga più importanti sull'argomento sono quelli del Rajna, il quale congettura la data del soggiorno parigino nel 1310, e anzi afferma che Dante conosceva i procedimenti e le peculiarità della scuola parigina, elemento che di per sé solo non sarebbe sufficiente, ma posto accanto all'esperienza della storia francese contemporanea e di luoghi di questa terra risulta nel complesso estremamente significativo.
8. I primi anni dell'esilio
"Uscito adunche in cotal maniera Dante di quella città" (Boccaccio), "bene che fosse guelfo, e però, sanza altra colpa" (Villani), certo per molto tempo non s'allontanò dai confini dello stato fiorentino: "ed il primo accozzamento fu in una congregazione delli usciti, la quale si fe' a Gargonsa" (L. Bruni). Egli è solo, come recita concorde la tradizione, a principiare dal Boccaccio: "Lasciati adunque la moglie e i piccoli figliuoli nelle mani della fortuna, et uscito di quella città, nella qual mai tornare non doveva".. Scarsissimi i suoi mezzi di sostentamento. Saccheggiati i suoi beni di casa dai Neri trionfanti. L'unico a potergli tendere una mano fu il fratellastro Francesco, il quale, per nulla compromesso dalle vicende politiche che avevano rappresentato la rovina anche economica del poeta, poté continuare i suoi traffici in città, a non gli fu difficile mantenere, anche personalmente, contatti col fuggiasco. E le notizie che a questo provenivano da cittadini o viandanti oppurecompagni di esilio provenienti da Firenze, allontanavano per il momento ogni speranza di poter rimettere piede in patria o che la situazione generale, sullo scacchiere toscano, si volgesse a proprio favore.