[sintetica | completa ]

Commedia



Divina Commedia -
Composta da Dante tra il 1308 e il 1321, è scritta in volgare e consta di 14.233 endecasillabi in terza rima (schema ABA, BCB, CDC, ecc.) organizzati in 100 canti: uno di prologo a tutta l'opera, e 33 per ognuna delle tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso). Il titolo fu apposto dall'autore in rapporto al contenuto dell'opera e al suo stile: perché la materia, orribile nell'Inferno, diviene desiderabile e grata nelle altre due cantiche, e perché, composta nel volgare comprensibile anche agl'indotti.
Giudicata, con la cultura del tempo, opera allegorica, e ispirato direttamente alla divina poesia della Bibbia e alla cristiana saggezza dei libri sacri, la Commedia è un poema che vuol essere anzitutto una descrizione poetica, per via d'immagini e di personaggi esemplari, dell'uomo come soggetto concreto di attività morale; dell'umana natura còlta e presentata dinamicamente, quale universale di rappresentazione, in rapporto, appunto, ai fini primari in essa connaturati: che l'uomo può negare e respingere (ma ne conseguirà, da parte della divina giustizia, l'eterna pena della dannazione) oppure liberamente accettare e perseguire: e nel loro raggiungimento sarà il concreto premio di un Dio remuneratore. Queste le premesse spirituali e intellettuali, la piattaforma concettuale su cui Dante ha costruito il proprio poema: che esamineremo rapidamente nei momenti fondamentali della sua realizzazione fantastica. Soggetto letterale dell'opera è il viaggio che Dante compie nell'oltretomba, rinnovando per grazia divina l'esperienza compiuta da Enea nella sua discesa all'Averno e insieme vivendo attualmente una esperienza analoga a quella dell'apostolo Paolo, rapito al terzo cielo per riportarne conforto e conferma alla fede cristiana (Inf. II 13-30). Giunto a 35 anni, la sera del venerdì santo 1300, il poeta si ritrova smarrito in una selva oscura. Dopo una notte d'angoscia, al mattino si incammina verso un colle illuminato dal sole; ma tre fiere (un leone, una lonza, una lupa) gli sbarrano il passo, e lo risospingono nel buio della selva. In suo soccorso giunge Virgilio, inviato da "tre donne benedette" (la Vergine Maria, Santa Lucia, Beatrice); e Virgilio conduce Dante alla personale salvezza, guidandolo "per luogo eterno", attraverso il regno infernale e il Purgatorio. Sulla cima del quale, ove Dante colloca il Paradiso terrestre, al poeta latino succederà Beatrice, che condurrà poi Dante (elevandolo di cielo in cielo con la forza luminosa e amorosa del suo sguardo d'anima beata che contempla Iddio) fino all'Empireo, ove il poeta godrà per un breve istante della suprema visione della divinità.
L'Inferno, oscura e profonda voragine, è suddiviso in nove cerchi che si sprofondano fino al centro della terra, restringendosi man mano. Vi sono racchiusi 112 personaggi mitici e storici di ogni tempo, dall'antichità classica, e biblica al 1300: filosofi e poeti, uomini politici ed ecclesiastici, regine e donne famose, cittadini fiorentini delle due fazioni, papi, cardinali, imperatori (parlano a Dante in 40); puniti con un criterio fondamentalmente ispirato alla classificazione dei vizi proposta nell'Etica aristotelica, secondo tre disposizioni permanenti al male (incontinenza, malizia, bestialità: cfr. Inf. XI 22-90) e collocati nei vari gironi secondo la gravità della colpa e della pena, maggiore quanto più si scende in basso. Sul fondo dell'Inferno (e quindi più distante da Dio) l'immane bestialità di Lucifero che dette origine, cadendo dal cielo, al baratro infernale. Immaginato con tre facce e sei ali (deforme trinità del male che si oppone a quella divina) egli maciulla con le sue tre bocche Giuda traditore del Cristo, e quindi della Chiesa come società perfetta, e Bruto e Cassio, traditori di Cesare, cioè dell'Impero. Il Purgatorio, montagna circondata dal mare dell'emisfero australe, cui i poeti arrivano dal centro della terra attraverso un passaggio sotterraneo, si erge verso il cielo, fino oltre la sfera del fuoco. In esso Dante incontra 46 personaggi, parlando con 25. Diviso in un Antipurgatorio e sette balze o cornici (in ognuna delle quali in ordine decrescente di gravità le anime espiano uno dei sette peccati capitali, dalla superbia alla lussuria), il monte è coronato dalla "divina foresta spessa e viva" del Paradiso terrestre (che si oppone alla iniziale "selva selvaggia"). Lì Dante, dopo i lunghi anni del distacco incontra la sua Beatrice, discesa per lui dal cielo, ammantata delle tre virtù teologali; e lì si compie il rito catartico della personale confessione e purificazione de poeta, che diviene così "puro e disposto a salire a le stelle".
È questo incontro, probabilmente, il nucleo primigenio - sul piano dell'invenzione - di tutta l'opera: il punto di sutura fra la storia personale del poeta e una vicenda ormai assunta a tipologia universale. E lì, nel "luogo eletto / A l'umana natura per suo nido" (Purg. XXVIII 77-78), prima di salire egli stesso al cielo guidato da Beatrice, Dante coglie anche, in sintetica visione, nella liturgica teofania della cosiddetta "mistica processione", la storia di tutta l'umanità (dal peccato d'Adamo in poi) in quanto preordinata alla Rivelazione e alla Redenzione: all'avvento del Cristo, contemplato simbolicamente nella sua duplice natura umana e divina (il Grifone). E insieme, col Nuovo Testamento, ecco la storia della chiesa cattolica, nei suoi momenti più luminosi (la predicazione apostolica e le persecuzioni) ma anche nelle sue cadute, dalle eresie alla donazione di Costantino (principio di decadenza spirituale) agli scismi, alla crescente corruzione dovuta al potere temporale dei papi, fino al trasferimento della curia ad Avignone, profetato - ovviamente post factum - in crude, calzanti immagini. Ma Beatrice assicura Dante che la Provvidenza divina non abbandonerà il suo popolo; la divina giustizia non lascerà "tutto tempo sanza reda" (Purg. XXXIII 37), cioè senza un erede, l'Aquila imperiale: presto un "messo di Dio", imperatore o suo vicario, riporterà l'ordine sulla terra, punendo la degenerazione di una Chiesa che nulla ha più di. spirituale, e restituendo la primitiva, apostolica virtù. Questo il messaggio che ai confini tra la terra e il cielo, là dove "fu innocente l'umana radice", Dante ascolta e registra "in pro' del mondo che mal vive", a far coincidere la propria e personale catarsi con le concrete indicazioni per una radicale palingenesi dell'umanità tutta, còlta nel suo duplice aspetto temporale ed eterno di humana civilitas e di Ecclesia fidelium: di organismo politicamente ordinato ad una civile, concorde unità, e insieme di società perfetta, che nella Gerusalemme celeste trova il suo termine e il suo compimento. Il possesso di queste fondamentali verità è il punto terminale della terrestre esperienza del poeta; tratto allora miracolosamente da Beatrice, sul filo sfavillante del suo sguardo di musa ispiratrice e di anima beata, alla celeste contemplazione del divino.
Entro la concezione tolemaica dell'universo creato il Paradiso è suddiviso in nove cieli concentrici (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo mobile) che ruotano attorno la terra. Nel decimo cielo, o Empireo, che tutti li abbraccia, risiedono, in una "mistica rosa", i beati, godendo, proporzionatamente ai loro meriti, della visione di Dio; e da lì 15 d'essi scendono (su 70 menzionati) e si presentano al poeta nei vari cieli (altrettanti gradi di spirituale perfezione) perché meglio egli intenda, nel vario diversificarsi delle immagini il proporzionato graduarsi della loro beatitudine. Giunto all'Empireo, Dante contempla Beatrice tornare al suo seggio di gloria (è la glorificazione promessa nella Vita Nuova); a lei succede, qual guida, San Bernardo, che ottiene (per intercessione di Maria Vergine) che Dante possa intuire, contemplandoli per breve istante direttamente in Dio, i misteri principali della fede cristiana: unità e trinità di Dio, incarnazione del Cristo. Esperienza sublime, che fa sentire all'autore la totale inadeguatezza dell'immaginazione a descrivere ulteriormente la propria suprema visione; si chiude così il "sacrato poema", nel nome de "l'Amor che muove il sole e l'altre stelle".
Nelle intenzioni di Dante il poema ha un preciso significato allegorico: la rappresentazione fantastica del viaggio dantesco altro non è, sul piano allegorico, che la storia interiore dell'anima di Dante: la presa di coscienza, da parte di Dante personaggio esemplare ed insieme poeta e autore della propria opera, di una concreta realtà esistenziale; quella della nostra vita, della natura umana con le sue passioni, le sue contraddizioni, i suoi conflitti. Conoscenza, insomma, poetica dell'uomo e dei suoi fini, che si traduce e risolve in una non meno concreta esperienza spirituale di Dante medesimo; in quanto ad ogni suo giudizio su uomini e avvenimenti, passioni e tendenze di questa nostra umanità travagliata, al superamento insomma - sul piano strutturale - d'un particolare peccato, o al raggiungimento nel corso del viaggio d'un particolare grado di beatitudine, corrisponde in effetti il progressivo affrancarsi di Dante dalla schiavitù delle passioni, dal peso cieco della nostra individualità corporea, in un progressivo approfondimento spirituale che lo conduce, in una continua ascesa, dalla "selva selvaggia" del peccato al possesso di Dio come bene infinito che si fa premio all'anima che lo contempla nel della fede.

tratto da: Francesco Mazzoni, Divina Commedia, "Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti", IV, fasc. 74-75 (1965), pp. 215-219



Divina Commedia
1. Titolo. - Sul titolo esatto del capolavoro dantesco non esistono dubbi, da quando fu accertato che l'epiteto 'divina' fu aggiunto alla dizione originale, Comedia o Commedia, a cominciare dall'edizione veneziana del 1555 stampata da Gabriele Giolito e allestita da Ludovico Dolce. Appare probabile, se non
addirittura certo, che il Dolce abbia cavato tale attributo per il frontespizio della sua edizione dantesca non tanto dal De Origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii poetae illustris et de operibus compositis ab eodem di Giovanni Boccaccio (nella prima redazione), ove spesso compare per la prima volta a sottolineare l'eccellenza del poema, quanto dal Cesano di Claudio Tolomei, stampato nello stesso anno dal. Giolito (ma probabilmente conosciuto manoscritto dal Dolce), nel quale ricompare con il medesimo significato la giuntura della fonte ultima, la biografia boccacciana. Non si deve peraltro escludere che il Dolce abbia utilizzato l'epiteto con fini e valori semantici diversi (divina, "che tratta di argomenti oltremondani"), quegli stessi che hanno immediatamente decretato la fortuna di un titolo storicamente giustificabile quanto sostanzialmente arbitrario. Il titolo originale suona dunque Comedia o Commedia, dato che nel Medioevo la forma scempia si alterna alla geminata, accentato sulla i alla greca, come conforterebbe a ritenere l'impiego dantesco (If xvi 128 e xxi 2), secondo i suggerimenti di taluni etimologisti del tempo (per es. Giovanni di Garlandia) il recente editore critico del poema, liberatosi finalmente dalla tradizione 'vulgata', ha optato per Commedia, anche se nelle rubriche antiche ai canti, da lui accolte nell'edizione, compare la forma scempia. Ce ne assicurano da un lato la tradizione manoscritta ed esegetica, concorde, nell'oscillazione grafica già menzionata, sull'intitolazione generica, specificata e chiarita dai titoli singoli premessi a ciascuna cantica (Inferno, Purgatorio, Paradiso), dall'altro le esplicite dichiarazioni di Dante nella Epistola a Cangrande (xiii 37), nella quale distingue esemplificando: "Patet etiam de libri titulo; nam titulus totius libri est 'Incipit Comoedia etCommedia ', ut supra; titulus autem huius partis est ' Incipit cantica tertia Comoediae Dantis etCommedia quae dicitur Paradisus '"..
Molto controverse sono invece oggi le posizioni degl'interpreti intorno alle ragioni dantesche della scelta del titolo generico e al suo significato, per via delle diverse giustificazioni che Dante stesso ne offre. Nella prima, contemporanea o di poco precedente l'ideazione del poema (VE II iv 5-6) è teorizzato: Deinde in hiis quae dicenda occurrunt debemus discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda. Per tragoediam superiorem stilum inducimus, per comoediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum. Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem [oportet] ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur... Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere. A questa altezza Dante definisce il genere comico in contrapposizione a quello tragico sulla base di qualificazioni stilistiche rispetto a diversi livelli espressivi, che la tradizione classica e medievale insegnava da tempo: nella fattispecie distingue uno stile elevato adatto alla tragedia, uno mediano per la commedia, uno umile per l'elegia. Se lo stile tragico si fonda sul volgare illustre e sul genere lirico della canzone (ma tragedìa è anche per Dante l'Eneide di Virgilio: cfr. If xx 113), la scelta del titolo sarebbe inizialmente (e quindi almeno per la prima cantica) giustificata dal fatto che l'opera è scritta in un volgare che si mantiene dal lato espressivo su registri 'mediocri'. Ma nel prosieguo del tempo,a mano a mano che il disegno del poema si veniva attuando nella tripartizione tonale e materiale delle cantiche e dei mondi ivi raffigurati, Dante aggiunse alla prima altre ragioni in favore del titolo prescelto come appare da quell'Epistola a Cangrande (xiii 28-31) che cronologicamente coincide con la stesura dei primi canti dell'ultima cantica (1316 circa): Libri titulus est: 'Incipit Comoedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus'. Ad cuius notitiam sciendum est quod commedia dicitur a 'comos' villa et 'oda' quod est cantus, unde commedia quasi ' villanus cantus'. Et est comoedia genus quoddam poeticae narrationis ab omnibus aliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragoedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est foetida et horribilis: et dicitur propter hoc a 'tragos' quod est hircus et 'oda' quasi 'cantus hircinus', id est foetidus ad modum hirci; ut patet per Senecam in suis tragoediis. Comoedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comoediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis 'tragicum principium et comicum finem '. Similiter differunt
in modo loquendi: elate et sublime tragoedia; comoedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragoedos loqui, et sic a converso ?Interdum tamen et vocem comoedia tollit, / iratusque Chremes tumido delitigat ore; et tragicus plerunque dolet sermone pedestri / Telephus et Peleus, etCommedia'. Et per hoc patet quod Comoedia dicitur praesens opus. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et foetida est, quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus; ad modem loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et mulierculae comunicant".
Si comprendono bene di fronte ad argomentazioni di questo tipo le perplessità di lettori antichi e moderni, a cominciare dal Boccaccio, che, seguito da Benvenuto, nelle Esposizioni sopra la Commedia di Dante, proprio riprendendo le giustificazioni dell'Epistola dantesca (che però non considerava di Dante), limita la convenienza del titolo alla materia, non allo stile, dell'opera. Dante infatti procede ben oltre la primitiva differenziazione dei generi comico e tragico sulla base dei diversi piani stilistici, affrontando il preciso e personale problema della definizione e del significato di Commedia, ossia del titolo del capolavoro, del quale stava stendendo l'ultima parte. Né si arresta alla spiegazione etimologica del termine, la quale riecheggia palesemente la glossa fornita dai grammatici medievali, o alla distinzione strutturale del genere (genus quoddam poeticae narrationis) che etichetta la 'commedia' narrativa medievale in forme ben lontane da quella classica. Egli contrappone la tragedia alla commedia in base allo sviluppo contenutistico dell'azione in esse rappresentata, assegnando alla prima (con insospettato rinvio a Seneca tragico) lo svolgimento da una situazione di partenza admirabilis et quieta a un esito finale drammatico (la conclusione foetida et horribilis), alla seconda (esemplificata inaspettatamente in Terenzio) lo sviluppo fra estremi inversi, dalla asperitas iniziale alla prosperitas terminale. Tale differenziazione contenutistica, parzialmente attestata già da Uguccione, avallata da esempi classici ignoti alle fonti medievali, è rincalzata successivamente da una caratterizzazione apparentemente stilistica (ad modum loquendi), che sembra ricalcare con qualche diversità nella dizione le qualifiche del trattato linguistico: elate et sublime tragoedia, contro comoedia vero remisse et humiliter. Nuovo risuona invece l'appello all'auctoritas oraziana, in forza della quale Dante rivendica ai poeti (e dunque anche per sé stesso) il diritto di trascorrere dalla tragedia alla commedia e viceversa. Ma nella verifica di queste proposizioni generali sull'ordito concreto del poema, Dante non si limita a provare che la sua Commedia rientra contenutisticamente negli schemi del genere comico, e giunge a giustificare lo stile remissus et humilis sulla base dello strumento linguistico impiegato, il volgare, ossia la lingua che possono intendere anche le donnette. Nella parte finale della definizione è dunque evidente il distacco dalle posizioni assunte nel De vulg. Eloq., ove il criterio distintivo dei generi puntava sui caratteri stilistici senza invocare argomenti linguistici. È stato perciò facile muovere appunti di vario genere a questa definizione, in forza della quale alcuni hanno addirittura preteso di dimostrare l'apocrifia dell'Epistola a Cangrande a altri di restringere la denominazione Commedia alla sola prima cantica. Conviene certo ricordare che Dante definisce comedia la propria opera soltanto nell'Inferno (xvi 128 e xxi 2) e che nel Paradiso (xxiii 62 e xxv 1) la rammenta come sacrato poema o poema sacro. Stando alla definizione dell'Epistola a Cangrande si verrebbe paradossalmente a ritenere prevalente lo stile comico nella parte tragica del poema, ossia nella cantica horribilis et foetida, e quello tragico nella materia comica, prospera, desiderabilis et grata, del Paradiso. Infine Dante smentirebbe l'opinione già professata nell'Inferno nel senso che il poema virgiliano, appellato tragedia, dal momento che da eventi dolorosi sfocia in una felice conclusione, rientrerebbe paradossalmente nel genere comico. Per ovviare a simili contraddizioni, dedotte dal raffronto con le opinioni precedentemente professate da Dante, s'è ricordato che il titolo di Commedia fu scelto dal poeta quando attendeva alla stesura della prima cantica e forse non pensava ancora al mondo descritto nella terza: concepita insomma come 'comedia' l'opera divenne poi un poema dai toni più alti, al quale mal conveniva la denominazione iniziale; che tuttavia Dante nell'impossibilità di mutare perché già diffusa (soprattutto con la prima cantica) cercò di giustificare con argomentazioni nuove rispetto alle primitive del De vulg. Eloq., incorrendo in qualche contraddizione con quanto aveva precedentemente affermato. In queste oscillazioni sarebbe celato l'imbarazzo definitorio di Dante, che dal lato contenutistico si rifà per la denominazione di Commedia alla tradizione retorica del tempo, mentre dal rispetto stilistico, come prova la citazione oraziana insieme alla coscienza, nettissima all'altezza del Paradiso, della grandezza del proprio poema sfuggente a qualsiasi schema grammaticale, cerca di liberarsene escogitando per esso una nuova, più complessa formula, che nell'ambito di un titolo tradizionale tenga conto della nobiltà del soggetto e dello stile, e tuttavia lo collochi in una sfera letteraria inferiore, secondo l'antica classifica, al genere 'sublime' del poema latino. Più storicamente altri ha rilevato che la 'comicità' stilistica, definita come locutio vulgaris che anche le femminette possono comprendere nell'Epistola a Cangrande, è ribattuta e precisata nella stessa direzione da Dante qualche anno più tardi come lingua volgare nelle Egloghe, dove appunto egli riprende i "vulgaria" rimproveratigli da Giovanni del Virgilio con i comica verba, identificando risolutamente il comico nel volgare. D'altra parte nell'originale richiamo a Orazio dell'Epistola a Cangrande è stata intravista una personale giustificazione di Dante a proposito di quanto nella sua Commedia si stacca con tonalità più alte dall'umile musica del genere 'comico'. Tenendo conto di questi elementi è stato possibile proporre una diversa spiegazione delle apparenti contraddizioni tra le due definizioni dantesche, relazionate al tempo in cui furono rilasciate e dunque alla carriera poetica di Dante: il quale nella formula del De vulg. Eloq. intendeva definire lo stile tragico delle grandi canzoni appena composte, separandolo dal comico, suddiviso in mediocre e umile, nell'Epistola a Cangrande mirava invece, attestato su altre posizioni in conseguenza dei nuovi interessi poetici che dalle Rime lo avevano portato al poema, a misurare le distanze intercorrenti tra stile umile e stile tragico. Di qui la constatazione che Dante, senza rifarsi alle affermazioni precedenti, anzi superandole d'un tratto, oppose la sua comedia volgare alla tragedia latina di Virgilio su basi linguistiche, mantenendo alla propria opera il titolo generico in forza di ragioni contenutistiche recepite dalla tradizione medievale e sul fondamento dell'umiltà del metro adottato, la terzina concatenata dedotta dal sirventese popolaresco. Né la definizione di poema rilasciata nel Paradiso, insieme alla qualifica di sacro o sacrato, che ben s'intona allo schema della narrazione negli estremi contenutistici fissati nell'Epistola XIII, contrasta con quello di comedia, in quanto significa genericamente "opera poetica".
2. Composizione. - Se nella mirabile visione preannunciata e promessa dal finale della Vita Nuova è lecito scorgere la primitiva idea della Commedia sia pure nelle linee vaghe e incerte di un trionfo celestiale di Beatrice, ben diverso nel progetto dall'esecuzione del futuro poema, non è per altro verso consentito di precisare quando quel generico disegno sia stato ripreso, definito e quindi attuato attraverso gli anni da Dante nel concreto arco del poema quale ci è pervenuto, data la mancanza assoluta di notizie dirette da parte dell'autore o di documenti esterni del tempo. Dal silenzio dei contemporanei sono sorte le discussioni e le tesi degl'interpreti antichi e moderni, primo fra tutti il Boccaccio che nel citato De Origine, vita, studiis et moribus distingue due fasi nella composizione del poema, che in parte (precisamente i primi sette canti dell'Inferno) sarebbe stato scritto, come opera in lode di Beatrice, prima dell'esilio, e quindi continuato dal 1306 in poi fuori Firenze. Anche sfrondata dagli elementi novellistici, la tesi trova oggi scarso credito, al pari di quella che pretenderebbe al contrario di ritardare l'inizio della composizione agli anni seguenti la morte di Arrigo vii (1313), cioè all'indomani del tramonto delle speranze dantesche nel rientro a Firenze e del conseguente rifiuto a un'attiva partecipazione politica alle vicende del proprio comune. L'una e l'altra si basano su prove insufficienti: la prima su un modulo stilistico di passaggio del testo dantesco (If viii 1), atteso che il Boccaccio per primo, riprendendo più tardi criticamente questa leggenda, manifesta nei suoi riguardi, tramite un paio di fondate obiezioni, un deciso scetticismo; la seconda su una rete di analogie contenutistiche in sé stringente, ma non probante a fini cronologici, tra i canti viii-x dell'Inferno e le Epistole v-vii. Delle due altre tesi, oggi prevalenti, che indicano rispettivamente nel 1304 e nel 1306-7 l'inizio della stesura del poema, la seconda gode sulla prima del favore di vari indizi interni alla carriera poetica di Dante, il quale negli anni tra il 1304 e il 1306 attendeva alla composizione di opere quali il De vulg. Eloq. e il Convivio, ambedue interrotte, parrebbe, dal sopraggiungere di altri più urgenti interessi letterari, e alla prima cantica, contenente allusioni storiche che toccano di fatti avvenuti sino all'anno 1309, senza varcarlo. Più tarda, ma non di molto, sarebbe la stesura del Purgatorio, dato che gli accenni storici interni conducono sino al 1313. La probabilità di queste ipotesi cronologiche sembra avallata dalle poche notizie esterne, tutte più tarde, intorno alla circolazione e alla diffusione delle prime due cantiche. La più precoce, costituita da una testimonianza vergata di proprio pugno da Francesco da Barberino ai margini della stesura autografa dei Documenti d'Amore ("Hunc [Virgilium] Dante Arigherii in quodam suo opere quod dicitur Comoedia et de infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum; et certe, si quis opus illud bene conspiciat, videre poterit ipsum Dantem super ipsum Virgilium vel longo tempore studuisse, vel in parvo tempore plurimum profecisse") quasi certamente tra la fine del 1313 e l'inizio del 1314 - prima comunque della morte di Clemente v ivi ricordato vivente, avvenuta nell'aprile del 1314 -, accenna chiaramente almeno alla diffusione dell'Inferno prima della fine del 1314. Sarebbe troppo evincere dal generico "cetera multa" un preciso accenno al Purgatorio, che difatti con ogni probabilità iniziò a circolare più tardi, forse l'anno seguente; ma non sembra comunque che gl'ingegnosi tentativi, compiuti anche di recente, d'invalidare la testimonianza barberiniana o di sminuirne la portata in direzione cronologica per quanto riguarda la diffusione, e implicitamente la stesura, dell'Inferno, siano riusciti a spostare convincentemente i termini del problema, proprio perché le prove in contrario si fondano sostanzialmente sul terreno scivoloso delle profezie post factum, alle quali in pratica resterebbe affidato il grave compito di fissare gli estremi della composizione delle due cantiche. Si è tentato di determinare, attraverso la comparazione dei vari accenni profetici disseminati da Dante nelle due prime cantiche e sullo sfondo della storia trecentesca, i termini iniziali e finali di ciascuna cantica (addirittura dei vari gruppi di canti) e anche di distinguere i tempi di composizione e di pubblicazione del poema, ipotizzando in mezzo un'opera di revisione da parte dell'autore. Queste catene d'ipotesi, per quanto fini e ingegnose, come provano gli esiti divergenti cui approdano, si reggono pur sempre all'origine sull'interpretazione soggettiva di passi oscuramente o vagamente profetici di Dante, i quali respingono per loro natura qualsiasi illazione storico-cronologica cogente. Converrà dunque accontentarsi di concludere che la prima cantica fu diffusa prima dell'aprile del 1314 e la seconda probabilmente poco dopo, rinunciando prudenzialmente a indicare per l'una e l'altra l'anno preciso dell'inizio e della fine della stesura. Meno incerti e generici appaiono i tempi di composizione del Paradiso, se è vero che con Ep xiii Dante inviava a Cangrande il primo canto dell'ultima cantica e in Eg ii ne parla, contrapponendola alle prime due, come di fatica non ancora conclusa. dalla prima testimonianza si evince che la composizione del Paradiso fu probabilmente iniziata nel 1316, dalla seconda (del 1319-20) che le prime due cantiche erano ormai diffuse da tempo, mentre Dante alla terza era intento a lavorare sino agli ultimi anni di vita: ambedue avallano l'ipotesi che Dante abbia progressivamente diffuso il Paradiso, inviando agli amici canti o gruppi di canti a mano a mano che li stendeva. A questi risultati non ostano le prove esterne e concrete della diffusione, tutte più tarde, com'è prevedibile, ai termini qui indicati, ma in parte risalenti agli ultimi anni di vita del poeta: quali i frammenti dei Memoriali e Registri bolognesi che documentano la circolazione dell'Inferno a cominciare dal 1317 e del Purgatorio dal 1319, fornendo qualche anno più tardi (rispettivamente nel 1319 e nel 1327) più ampi squarci del primo e del secondo; e i calchi danteschi dei volgarizzatori, primo fra tutti Andrea Lancia, che in un manoscritto datato del 1316 contenente la sua traduzione dell'Eneide allude palesemente a un verso del Purgatorio.
3. Le fonti. - La predilezione dantesca per gli schemi letterari della 'visione', ripetutamente impiegati nel libello giovanile, s'intona perfettamente nella Commedia al gusto della civiltà medievale per il genere delle profezie e delle visioni oltremondane, entro il quale i precedenti classici e i suggerimenti biblici concorsero a ispirare un'abbondante produzione letteraria. Esplicitamente Dante ricorda come esemplari (sul piano dell'ideale e del reale) i viaggi all'aldilà di Enea e s. Paolo, dei più celebri precursori (l'uno fondatore pagano della civiltà romana, l'altro il più celebre predicatore della fede cristiana) del suo itinerario. Nella delineazione dei primi due mondi egli si è giovato di materiali (motivi, figurazioni, immagini) virgiliani, strutturando centralmente un episodio dell'Eneide (la discesa dell'eroe troiano al Tartaro e ai Campi Elisi) nella linea dorsale del proprio viaggio, appellandosi non di rado a richiami biblici (dall'Apocalisse di s. Giovanni alla visione paolina nella seconda epistola ai Corinzi). Ma varie altre opere classiche a lui familiari gli offrivano, o potevano offrirgli, spunti fantastici: come, per esempio, il Somnium Scipionis di Cicerone per quanto concerne il sistema delle sfere paradisiache, o il racconto lucaneo della maga Eritone e i numerosi viaggi all'Averno narrati nelle Metamorfosi ovidiane. E ancor più ricca di suggerimenti si presentava la letteratura religiosa delle 'visioni' per i fini edificanti ai quali tende la presentazione didascalica dell'altro mondo. Dalla sorgente biblica si erano ben presto diramate, con ampliamenti e varianti narrative, attraverso alcuni Vangeli apocrifi (dall'Apocalisse di s. Pietro alla visione di Henoc, dalla Visio sancti Pauli alla visione di s. Furseo), numerose leggende oltremondane nelle trattazioni ascetiche e agiografiche più diffuse nella civiltà medievale: quali il De Contemptu mundi di Innocenzo III, noto anche nel volgarizzamento dugentesco, le fortunate Vitae patrum, la popolare Legenda aurea (per non parlare delle visioni delle monache tedesche Matilde di Magdeburgo a Matilde di Hackenborn). Lo straordinario successo di questo filone s'incrociò nel terreno romanzo con i racconti di ascendenza irlandese condotti sullo stesso tema, come la Navigatio sancti Brandani, la leggenda del Purgatorio di s. Patrizio e soprattutto la Visio Tungdali, non meno fortunati di redazioni e rifacimenti in varie lingue europee, dando origine, nei secoli xii-xiii, a visioni mistiche variamente organizzate, tra le quali meritano di essere ricordati, a parte i monumenti iconografici, la Visio Alberici, i Dialogi di s. Gregorio Magno, il De Eruditione hominis interioris di Riccardo da San Vittore, l'Expositio super Apocalypsim e il Liber figurarum di Gioachino da Fiore, la Vita sancti Romualdi e il De Ouadragesima et quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus di s. Pier Damiano. A un territorio e a un'età prossimi alla Commedia appartengono i poemetti in volgare di Giacomino da Verona (De Ierusalem coelesti e De Babilonia civitate infernali) e di Bonvesin da la Riva (Libro delle tre scritture), che utilizzano il patrimonio delle antiche leggende in rozze descrizioni didattiche dell'oltretomba, a la più fine narrazione prosastica (Il libro de' Vizi e delle Virtudi) del fiorentino e contemporaneo Bono Giamboni.
Per la verità opere classiche e medievali, compilazioni cristiane e islamiche, versioni iraniche, indiane, spagnole e francesi sono state via via promosse dai lettori al rango di 'fonti' del poema dantesco in forza di corrispondenze e analogie materiali tra sparsi elementi delle raffigurazioni. I raffronti e le relative parentele consentono di misurare in tutta la portata rivoluzionaria l'intervento rielaboratore di Dante, che da quel mondo evasivo, languente nella stilizzazione convenzionale del genere e vistosamente acceso d'ingenui colori popolari, riuscì a cavare, mercé l'utilizzazione dei canoni di giudizio proposti dalle trattazioni filosofiche (bibliche, aristoteliche, neoplatoniche, patristiche, tomistiche, scolastiche, classiche), una rappresentazione dottrinalmente unitaria e fantasticamente conseguente. La conoscenza dei precedenti non permette dunque di additare la fonte e nemmeno le matrici della Commedia: assume un significato, conserva un valore nei limiti in cui consente di ricostruire il clima culturale e religioso nel quale germoglia la finzione dantesca che affonda le radici nel terreno di un genere vivacissimo e ne recepisce latamente qualche influsso; ma insieme trascende nettamente nell'organizzazione dei dati tradizionali, nella limpida architettura della costruzione, nel rigore morale dei significati, anche le opere con le quali palesa generiche, precise o saltuarie corrispondenze strutturali.
4. Tradizione del testo. - Le più antiche copie superstiti della Commedia risalgono a circa un decennio dopo la morte di Dante: di pugno dantesco non ci sono rimaste nemmeno una firma, una glossa (anche se pare che Leonardo Bruni conoscesse degli autografi), anche l'autografo della Commedia, come del resto quelli delle altre opere latine e volgari, è scomparso insieme all'intera biblioteca del poeta. Il testo della Commedia si diffuse ben presto in quella versione unica e monolitica, nella quale noi lo leggiamo anche in edizioni tra loro testualmente lontane, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale (dagli epicentri emiliano e toscano provengono difatti la maggior parte delle copie antiche) fra strati culturali e sociali di vario livello. Una diffusione popolare è attestata, sia nel Trecento sia nel Quattrocento, da manufatti esternamente umili, di tipo dozzinale ed economico: a essa vanno ascritti non soltanto processi di sfaldamento, corruzione, travestimento dialettale del testo, ma anche citazioni e ricordi orali, soprattutto a mo' di glosse al margine di altre opere, che alterano volgarizzandoli i tratti originali con arbitrari e contingenti adattamenti. Da ambienti borghesi o decisamente aristocratici provengono gli esemplari in pergamena e quelli provvisti di miniature, sempre insidiati da fenomeni di sovrapposizioni personali al dettato delle fonti, da ambienti letterari e colti (dal Boccaccio e dal Villani) gl'interventi più radicali e profondi sul tessuto del testo. Così la trasmissione manoscritta si svolge entro l'arco di circa un secolo e mezzo a opera di copisti improvvisati o professionali o decisamente eccezionali in proporzione via via crescente di codici, per poi inserirsi, con altre vicende, nell'alveo della riproduzione editoria le, concretandosi in una massa enorme di copie a penna, delle quali i circa seicento numeri superstiti rappresentano solo una parte, e forse non la maggiore.
Questa enorme diffusione fu sin dall'origine minacciata e colpita da fenomeni di corruzione e inquinamento testuali, di natura prevalentemente meccanica, che anziché limitarsi a segnare verticalmente la rete delle discendenze, incoraggiò ben presto i copisti ad avvalersi per il restauro di copie parallele. In breve tempo la consultazione saltuaria di esemplari collaterali alla fonte si trasformò in un'opera costante e sistematica di collazione che la popolarità e la riverenza goduta dal testo dantesco sembravano richiedere come prova di sacro rispetto. Incrociandosi e livellandosi le tradizioni, la prassi di un conguaglio orizzontale s'impose sulla normale rete di rapporti verticali e si complicò fatalmente, a mano a mano che la Commedia si diffondeva, con l'intervento nelle trascrizioni dei singoli copisti, inavvertitamente portati a sostituire la dizione dell'antigrafo con il ricordo personale, fatalmente turbato da corruttele mnemoniche. Di qui la difficoltà di ricostruire lachmannianamente la storia diacronica della trasmissione manoscritta, frenata a ogni passo dalle deviazioni composite, e molto spesso aggrovigliata in resistenti intrecci da distinti filoni. Ne offrono testimonianza già i testi adoperati dai primi commentatori, tratti da esemplari ben posteriori alla morte di Dante, ma, nelle lezioni discusse nella glossa, anteriori a tutte le testimonianze da noi possedute (le chiose di Iacopo Alighieri sono del 1322, quelle di Graziolo Bambaglioli del 1324, il commento del Lana è compreso tra il 1324 e il 1328, quello della prima redazione dell'Ottimo tra il 1333 e il 1334): i quali, per intrinseche esigenze esegetiche, tengono conto, riunendoli, di suggerimenti diversi attinti criticamente a tradizioni non irreprensibili. A ciò s'aggiunga che il testo allegato e il commento che l'accompagna seguono sovente tradizioni distinte, che sovrapponendosi si influenzano vicendevolmente con prestiti e incroci.
Del più antico codice della Commedia, esemplato a Firenze, dobbiamo notizie a un dantista fiorentino del Cinquecento, Luca Martini, che nel 1548 a Pisa poté prenderne visione presso il proprietario (messer Prozio Grifi) e segnarne su un esemplare dell'edizione aldina del 1515, pervenutoci (Milano, Bibl. Naz. di Brera, AP. xvi. 25), gli esiti di una collazione sistematica, che si presume ci restituisca quasi completamente l'originaria fisionomia testuale. Dalla subscriptio del vetusto testimone, riferita integralmente dal filologo cinquecentesco, ricaviamo non solo che il codice fu trascritto nella capitale toscana da un Forese (probabilmente Forese Donati, che fu poi pievano di S. Stefano in Botena) tra la metà d'ottobre del 1330 e il 30 gennaio del 1331 per conto del fiorentino Giovanni Bonaccorsi, ma che l'estensore si rivolse nell'apprestare la copia e più di un esemplare dell'opera: "Ego autem ex diversis aliis respuendo quae falsa et colligendo quae vera vel sensui videbantur concinna, in hunc quam sobrius potui fideliter exemplando redegi". Da questa confessione si evince non solo la conferma che il testo dantesco andò ben presto soggetto a un processo di corruzione meccanica e di differenziazione interna nelle varie copie, ma anche la conclusione che in conseguenza di questi fatti, prima che trascorressero dieci anni dalla morte di Dante, i più avveduti trascrittori ricorrevano ecletticamente per sanare le mende della tradizione prescelta (o quelle che ritenevano tali) al suggerimento di più esemplari, apprestando vere e proprie edizioni critiche fondate su più testimonianze e artigianalmente governate dal gusto personale. Che il codice (siglato comunemente Mart) sia un'editio variorum molto autorevole, ritoccata qualche volta congetturalmente dal suo amanuense, è stato confermato dall'analisi di tutti gli specialisti odierni, i quali lo hanno collegato, sia pure in rapporti di diversa natura, con il Trivulziano 1080 (Triv), vergato nel 1337 da un altro operoso copista fiorentino, Francesco di ser Nardo da Barberino in Val di Pesa. Tra gli altri testimoni antichi della diffusione in Toscana, o ad essa collegati per le fonti che impiegano, converrà rammentare il codice Venturi Ginori Lisci 46 (Gv) esemplato a Firenze nel 1338 (se la data appostavi è, come pare, autentica), contenente solo l'ultima cantica; l'Ashburnhamiano 828 (Ash), che se non è proprio del 1335 come si legge in una subscriptio d'altra mano, non sembra molto più tardo; il codice Hamilton 203 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino (Ham) preparato a Pisa non molto più tardi del 1348 (data appostavi da altra mano, ma coeva); il Cortonese 88 (Co) scritto da Romolo Lodovici da Firenze prima della metà del secolo; il codice 597 del Musée Condé di Chantilly (Cha) contenente l'inedito commento latino di Guido da Pisa e il Parigino ital. 539 (Pr) ambedue anteriori di poco al 1350; il Parmense 3285 (Parm) di poco posteriore a quella data.
Pressappoco entro gli stessi termini cronologici si dovette svolgere la diffusione della Commedia fuori dell'orbita toscana nell'area settentrionale. Ad essa riconduce il più antico manoscritto sicuramente datato della Commedia giunto sino a noi, il Landiano 190 di Piacenza (La), allestito a Genova nel 1336 da un copista quasi sicuramente marchigiano, Antonio da Firimo o Fermo, per conto del giureconsulto pavese Beccaro de Beccaria, podestà della città ligure. Circa un quindicennio più tardi la primitiva trascrizione fu rinfrescata da un'altra mano che attese a raschiare molte delle lezioni primitive e a sostituirle con altre attinte a una tradizione toscana più recente. Tra gli esemplari di questo filone, tutti più tardi, vanno menzionati almeno quello apprestato dal bolognese 'maestro Galvano', giuntoci in due spezzoni distinti, il Riccardiano 1005, contenente le prime due cantiche, e il Braidense AG xii 2 che reca la terza (indicati complessivamente con la sigla Rb), provvisto del commento laneo (circa 1340), il Parigino ital. 538 (Pa) confezionato, forse in terra veneta o lombarda, nel 1351 da Bettino de Pili (che copiò e sottoscrisse quasi un ventennio più tardi due altri esemplari), il Vaticano Urbinate 366 (Urb) copiato in Emilia nel 1352, e il Madrileno 10186 (Mad), preparato da un copista ligure nel 1354.
Le più note avventure incontrate dal testo dantesco negli anni successivi ci riportano in terra toscana, dove, pressappoco intorno alla metà del Trecento, per le felici condizioni dei centri scrittorii soprattutto fiorentini in conseguenza di un mercato sostenuto dalle pressanti richieste delle classi borghesi e mercantili in rapida ascesa economica e culturale, si infittiscono con le domande dei lettori anche le copie della Commedia. A quel Francesco di ser Nardo, trascrittore nel 1337 di Triv., dobbiamo infatti nel decennio successivo la preparazione di almeno due altri esemplari del poema, dei quali ci restano nitide tracce: il primo, attestato da un frammento, oggi a Modera, del Purgatorio (Mo) sembra di qualche anno anteriore al secondo, il Laurenziano Gaddiano xc sup. 125 (Ga), oggi incompleto, datato del 1347. Ma l'intervento di ser Nardo sulle fortune del testo dantesco non s'arresta qui. Alla sua autorità, e talora, almeno in parte, alla sua penna, alcuni filologi dell'Ottocento hanno ascritto, sulla base di somiglianze grafiche, di costanti ortografiche e di analogie testuali con quelli firmati di suo pugno, vari altri esemplari fiorentini, indicati come 'del Cento'. Tale attribuzione va oggi accolta restrittivamente, nella sostanza più larga e generale, in virtù di prove scientifiche e paleografiche, che se limitano l'attività scrittoria di ser Nardo, ne rilevano per contro l'importanza su una larga sezione trecentesca delle testimonianze: il gruppo del Cento, così denominato sulla falsariga di una leggenda orale raccolta e trasmessa dal filologo fiorentino Vincenzio Borghini (il quale parlando degli amanuensi del '300 riferisce che "si conta d'uno che con cento Danti ch'egli scrisse, maritò non so quante figliuole; e di questi se ne trova ancora qualcuno, che si chiamano 'di quei del Cento'": e così si legge, di mano cinquecentesca, nel codice fiorentino trecentesco segnato Laurenziano xl 16) serve eloquentemente a caratterizzare una vasta produzione in serie preparata quasi commercialmente in uno scriptorium fiorentino impegnato a confezionare in regolari ed eleganti manufatti, curati allo stesso modo nella forma esterna e nella veste linguistica, il testo del poema dantesco. Attraverso prodotti commerciali di questo tipo si forma così una vera e propria 'vulgata' fiorentina, regolare negli esiti testuali, che raccoglie, contamina e convoglia la tradizione precedente aggiornandola con apporti orizzontali. Di questa tendenza del mercato scrittorio Francesco di ser Nardo appare l'interprete fedele e responsabile, se è vero che sotto la sua direzione fu organizzata una vera e propria officina scrittoria nella quale altri amanuensi, da lui istruiti a imitare la sua grafia, allestirono le copie che si designano con la sigla borghiniana. Agli stessi criteri di volgarizzazione commerciale sono stati ricondotti altri esemplari fiorentini, riuniti confusamente in una sottosezione detta 'strozziana' perché costituita, insieme ad altri, da ben cinque esemplari vergati dalla stessa mano, ora Laurenziani Strozziani 149-153, i quali costituirebbero un sottosviluppo, ancor più dozzinale, dell'officina 'del Cento'.
Poco dopo, a complicare in questo clima la storia del testo dantesco, intervenne Giovanni Boccaccio copiando e divulgando in varie tappe una singolare e fortunata antologia dantesca comprendente accanto al capolavoro la Vita Nuova e una collana di quindici canzoni, introdotta da una biografia di presentazione (il citato De Origine, vita... Dantis Aligerii). Il Boccaccio perseguì questo disegnò nel ventennio compreso tra il 1350 e il 1370, allestendo non meno di tre sillogi, diverse non solo nell'introduzione biografica (via via scorciata), ma anche nella veste delle opere dantesche, modificata e corretta ogni volta con il ricorso eclettico a tradizioni ed esemplari diversi e l'intervento soggettivo e di gusto del curatore, che lasciò la propria impronta non soltanto nei sommari e nelle rubriche di cui le provvide. II punto di partenza di quest'operazione filologica e testuale è per la Commedia rappresentato dal Vaticano lat. 3199 (Vat), identificato solitamente con l'esemplare di dedica inviato dal Boccaccio al Petrarca nel 1359 o nel 1351, consegnato nelle mani del Petrarca per incarico del Boccaccio da Forese Donati (il copista di Mart), quando il più vecchio amanuense della Commedia accompagnò ad Avignone il vescovo Angelo Acciaiuoli. Certo è che la tradizione di Vat, copiato non dal Boccaccio ma da altra mano verso la metà del secolo, probabilmente attraverso un collaterale trattenuto presso di sé dal poeta-biografo, costituisce il testo base per le trascrizioni boccaccesche, che sono in ordine cronologico impersonate dal codice Toledano 104, 6 (certamente anteriore al 1360), dal Ríccardiano 1035 e dal Vaticano Chigiano L vi 213. Stando alle ultime risultanze, dalla prima alla terza copia autografa del Boccaccio si assiste a un progressivo distacco dalle lezioni di Vat (che pure non viene mai totalmente sconfessato come guida), attuato, a parte i saltuari ritocchi congetturali, attraverso la consultazione sporadica della tradizione rispecchiata da Triv a Urb: all'ultimo di questi tre testi composti, ulteriormente manipolato, il Boccaccio si rifà anche per la sua fatica di pubblico lettore di Dante nelle Esposizioni. La fortuna della nuova vulgata boccaccesca, che prende il nome dalla principale sorgente (Vat) di 'gruppo vaticano', fu ricchissima di filiazioni (nel secondo Trecento e nel Quattrocento) e larghissima d'influssi (approdò alle stampe tramite l'aldina del Bembo e dominò la scena editoriale sino al testo del Witte compreso), ma soprattutto risultò decisiva nell'orientare le sorti e il corso dell'intera tradizione della Commedia, turbata e sconvolta dall'iniziativa del Boccaccio nelle sue acque già impure. Sotto il suo influsso difatti la seguente produzione a penna, fiorentina e non, appare inestricabilmente aggrovigliata in vischiosi sviluppi di mescidanze, incroci trasversali, conguagli orizzontali di natura eterogenea, saldamente cementati da correzioni arbitrarie e varianti gratuite. Essa rispunta nella recensio chigiana, dopo aver promosso esemplari testualmente scadenti, attorno al 1390 in una trascrizione illustre, contenuta nel codice Laurenziano S. Croce xxvi sin. 1 (LauSC), compiuta da Filippo Villani, che di essa si servì senza rinunciare per proprio conto al progetto di un'edizione artigianalmente critica della Commedia, con un prudente innesto nella vulgata boccaccesca di una tradizione più antica.
Si comprende facilmente come lo studio della tradizione quattrocentesca (assommante a circa quattrocento esemplari) sia stato sinora trascurato, perché verte su copie che respingono ogni schema classificatorio, presentando testi corrotti, contaminati, livellati. In linea di massima è probabile che la tarda fortuna manoscritta della Commedia non contenga in sé elementi vantaggiosi al concreto ristabilimento del testo né valga a modificare minimamente la sistemazione dei piani alti dello stemma.
5. Le edizioni del poema. - La ricca storia editoriale della Commedia inizia precocemente con l'impressione di un paio di terzine dell'Inferno (xxiv 106-111) aggiunte tra un passo delle Metamorfosi ovidiane e del Carmen de Pascha di Venanzio Fortunato in coda all'edizione del Lactantii Firmiani de diuinis institutionibus, stampata a Roma nel 1468 da Conrad Schwinheim di Magonza e Arnold Pannartz di Praga. La princeps vera e propria si deve però considerare quella edita a Foligno da Giovanni Numeister di Magonza l'11 aprile del 1472, seguita pochi mesi dopo nello stesso anno da un'edizione veneziana e una mantovana. Sono queste le stampe fondamentali per le successive impressioni quattrocentesche, che da esse dipendono (tre napoletane, fra cui notissima quella curata da Francesco del Tuppo; la veneziana di Vindelino da Spira accompagnata dal commento laneo attribuito a Benvenuto; la milanese nota come 'Nidobeatina', allestita dal Nibbia che intervenne arbitrariamente sul commento del Lana del quale la provvide; quella fiorentina con il celebre commento del Landino, fortunatissima di repliche quattrocentesche), sino all'Aldina del Bembo (Venezia 1502), ristampata nel 1515: le quali pur fra molti errori e qualche arbitrio, riproducono di massima, a cominciare dalla princeps che segue generalmente il cosiddetto codice Lolliniano di Belluno, qualche esemplare a penna tardotrecentesco o quattrocentesco; mentre le stampe successive contaminano più spregiudicatamente il testo base con altre fonti. L'importanza testuale dell'edizione bembesca non va certo addebitata a una ricerca più impegnata e approfondita intorno alla tradizione manoscritta da parte del grammatico veneziano (ché anzi si fonda sul codice Vaticano lat. 3197, copia autografa eseguita dal Bembo di Vat, che si trovava nella biblioteca del padre, Bernardo, rivisto ortograficamente e corretto congetturalmente), quanto al fatto che fissò per lungo tempo la 'vulgata' tradizionale. Dall'edizione bembesca fu cioè stabilito un testo che sotto la vernice autorevole della sua fonte trecentesca e l'avallo del più famoso grammatico del Cinquecento riproduceva da un lato i gravi vizi contaminatori dell'antigrafo, dall'altro li accresceva con ritocchi e regolarizzazioni formalistici e retorici di gusto personale, evidenti sin dall'intitolazione polemica (Le terze rime). A poco valse in questo senso anche la più coraggiosa edizione tra le numerose di quel secolo, che arricchirono il poema di nuovi commenti esegetici, cioè quella allestita, per merito di Leonardo Salviati, dagli accademici della Crusca (Firenze 1595), che tentò di abbattere la dittatura bembesca allargando criticamente, attraverso il ricorso ad antichi esemplari a penna e utilizzando il lavoro di scavo compiuto dai grammatici fiorentini dell'epoca, i confini di quell'edizione fondata sull'optimus codex (anzi ritenuto ipoteticamente tale) e accettata supinamente per l'auctoritas del curatore: perché nelle innovazioni proposte si riferisce sempre al testo aldino, confermato in tal senso come fondamentale. E tuttavia, anche se non riuscì a fermare o a correggere il corso della vulgata, l'edizione della Crusca riassume e conclude gl'interessi filologici della Firenze dantesca intorno alla Commedia, dei quali la collazione del Martini costituisce l'episodio saliente, non l'unico. È noto difatti che lo stesso Martini nel 1546 insieme ad altri studiosi, diretti da Benedetto Varchi, aveva riportato su un altro esemplare della replica aldina del 1515 gli esiti della collazione, compiuta nella Pieve di S. Gavino in Mugello, di ben sette altri esemplari ritenuti autorevoli e importanti per il testo tradito e la data della trascrizione, uno dei quali risaliva addirittura al 1329. Scomparsa questa copia dell'Aldina, di quel lavoro resta a noi una testimonianza pressoché inutilizzabile: le troppo generiche postille apposte da Baccio Valori a un altro esemplare della stessa Aldina (Firenze, Bibl. Naz. Centr., 22 A 7 5) che tengono indifferenziato conto dei sette codici spogliati. Poco più tardi allo studio della tradizione a penna della Commedia si dedicò con altri amici anche Vincenzio Borghini, che fu il primo a notare i fondamentali tratti comuni che legano la famiglia 'del Cento', intuendo che i testi esibiti da questi manufatti di serie "sono ragionevoli, ma non però ottimi ".
II tentativo degli accademici della Crusca fu troppo prudente perché non sfruttò quanto meritavano i risultati delle precedenti esplorazioni. Per un'impostazione scientifica, non velleitaria soltanto, sia pure sul piano teorico, conviene attendere la seconda metà del secolo xviii, quando non solo s'infittisce il numero delle edizioni della Commedia (nel 1757-58 compare a Venezia il primo corpus completo delle opere dantesche), che nel '600 aveva toccato il livello più basso (appena tre), ma escono le Correctiones et adnotationes in Dantis Comoediam (1775), nelle quali il veronese Bartolomeo Perazzini si studiò di applicare idealmente al testo dantesco i metodi filologici sperimentati in Italia nella prima metà del secolo sulle opere medievali e bibliche e in Germania per merito della storiografia protestante. Egli intravide nel suo opuscolo, polemico nei riguardi dei precedenti editori, fermi alla riproduzione del codice unico e prigionieri della 'vulgata' recente, la necessità di una recensio più ampia delle testimonianze che fruttasse, tramite la relativa classificazione genealogica, lo sfoltimento della tradizione manoscritta con l'eliminazione degli esemplari descritti. Quanto alla concreta restituzione del testo originario, non solo indicò nella lectio difficilior un criterio orientativo, ma propose di distinguere all'interno della tradizione i codici trascritti "diligenter" da copisti colti inclini all'intervento congetturale da quelli esemplati "fideliter" sull'antigtafo (o sugli antigrafi) da trascrittori meno avveduti, propugnando l'opportunità di procedere anzitutto alla localizzazione geografica del materiale recensito ai fini di una valutazione culturale degli amanuensi stessi e quindi di una qualificazione testuale dei loro manufatti. La restituzione dell'usus linguistico dantesco doveva fondarsi sulla comparazione tra le consuetudini scrittorie dei vari copisti, eseguita sullo sfondo delle abitudini trecentesche: sulla base delle forme linguistiche dantesche, inserite convenientemente in un sistema organico che tenesse conto delle leggi metriche e ritmiche senza dimenticare, in caso di discordanza, la legge della lectio difficilior, l'editore avrebbe potuto sanare congetturalmente le infrazioni e le corruzioni delle copie a penna. Il limite di queste intuizioni metodologiche risiede nella mancanza della loro applicazione sistematica al tessuto concreto della tradizione manoscritta, utilizzata troppo scarsamente dal Perazzini. Una tale verifica si cercherebbe invano in Gian Giacomo Dionisi e in Baldassarre Lombardi, che pure conobbero l'opera del Perazzini, ma non ne sfruttarono per le loro edizioni i materiali raccolti. Poco giovarono del resto all'approfondimento del problema l'edizione postuma della Commedia del Foscolo (1842-43), che nel suo precedente discorso londinese (1825) toccò, senza indugiarvi, dei criteri della lectio difficilior e dei recentiores non deteriores; e quella degli accademici della Crusca (Firenze 1837) che ritoccarono in vari luoghi, segnalandone in appendice le correzioni, il testo della vulgata. Un vero e proprio superamento concreto segna invece la prima edizione critica del poema, dovuta alle cure del tedesco Carl Witte, il quale eseguì un lavoro pluridecennale di scavo della tradizione manoscritta, consultandone oltre quattrocento esemplari, alcuni dei quali collazionò integralmente, altri saggiò in parte. Essa si regge quasi esclusivamente sul criterio della lectio difficilior, applicato con notevole perizia e coerenza dopo che il Witte dimostrò nei Prolegomeni che conveniva rinunciare alla ricostruzione stemmatica della tradizione in forza dei fenomeni di corruzione e contaminazione che l'avevano ben presto intaccata impedendo non solo di ripercorrerne l'intero cammino genealogico alla ricerca della lezione originale, ma anche di attingere al primo stadio della sua diffusione. Di conseguenza egli restrinse la base dell'edizione a una quaterna di testimonianze (Vat, LauSC, il codice Caetani di Sermoneta, oggi smarrito, del secondo Trecento, e il quattrocentesco codice Italiano 136 della Deutsche Staatsbìblsothek dì Berlino), sulla quale apprestò un testo comunque più accettabile e compatto della vulgata.
La problematica svelata scientificamente dalle indagini e dalla risoluzione del Witte, rivoluzionarie per quei tempi, confortò approfondimenti critici esclusivamente teorici presso i filologi immediatamente seguenti, preoccupati su diverse strade di allargare metodologicamente le fondamenta della recensio. Da un lato il Mussafia predicò la necessità di un esame esaustivo della tradizione a penna nell'illusione che esso servisse a identificare, tramite la rete di rapporti classificatori, i capostipiti ultimi delle varie famiglie, dall'altro, onde limitate l'immane lavoro di collazione che già allora il regesto codicografico del Batines indicava quasi impossibile, il Monaci tentò di fermare alcuni principi generali, invero inadeguati, per vagliare più sbrigativamente il folto panorama della tradizione. Ma nello stesso periodo e indipendentemente da tali suggerimenti, spinto dalle medesime istanze eppure armato di altra preparazione filologica, Carlo Täuber procedeva attraverso un centinaio di loci critici al sondaggio di circa quattrocento manoscritti. Sul fondamento di questo spoglio egli credette di semplificare il problema testuale con la riduzione drastica della tradizione a 17 capostipiti, affatto irrelati tra loro al vertice rappresentanti i campioni modello delle diverse suddivisioni interne A parte i risultati periferici dell'inchiesta, ancor oggi pregevoli, quali la delimitazione cronologica dì alcuni esemplari e il raggruppamento genetico di altri (fu circoscritta tra l'altro la famiglia vaticana), i fondamenti metodologici di questa strana eliminatio apparvero subito fragilissimi a Vittorio Rossi, che mise in luce l'arbitrarietà della semplificazione. Quasi contemporaneamente del resto uscivano, prologo alla sua edizione del 1894 dotata di un ricco apparato per l'Inferno (comprendente le varianti di ben 17 codici di biblioteche inglesi) e selettivo (per loci critici) di tutte e tre le cantiche collazionate parzialmente su più di 250 esemplari, le Contributions dell'inglese Edward Moore. In esse venivano descritti accuratamente i manoscritti spogliati o collazionati integralmente, fermati di alcuni gli estremi per la localizzazione scrittoria e cronologica, delimitati criticamente i tratti tipici di qualche raggruppamento (come ìl Vatìcano). Pur confermando sostanzialmente le scettiche conclusioni lachmanniane del Witte (al cui testo il Moore presentava una discreta lista di correzioni), anzi integrando la dimostrazione a proposito dell'impossibilità di disegnare un grafico stemmatico globale a causa dei precoci fenomeni di contaminazione, egli impiegava con lucido equilibrio i principi fondamentali del restauro testuale giovandosi della lectio difficilior, dell'usus scribendi e, per primo, con suggerimento diretto delle fonti dantesche, per una bella serie di recuperi della lezione originale.
Sulla scia del Moore si poneva Michele Barbi, il quale se in linea di massima, dal lato metodologico, propugnava scientificamente la necessità di una recensione esaustiva del materiale e uno spoglio integrale di esso, formulò per ragioni pratiche un Canone dl luoghi scelti per un primo sondaggio, ossia fissò un lista di 396 loci critici, avvedutamente scelti tra le cruces testuali nei luoghi dove la tradizione perveniva a esiti difformi, e dislocati uniformemente lungo tutto il testo, le cui risultanze avrebbero fornito un controllo generale della tradizione e consentito se non uno stemma preciso, un'empirica sistemazione dei testimoni fondamentali e l'eliminazione di quelli descritti. In verità il sondaggio preparatorio compiuto da un'agguerrita équipe di specialisti mise in luce il groviglio inestricabile della situazione, ancor prima che Giuseppe Vandelli convogliasse nel testo critico della Società dantesca italiana (1921) il frutto delle proprie intrepide fatiche. In una serie preziosa di contributi, nei quali diede conto di piccola parte dell'ampio e preciso suo lavoro filologico, egli affrontò non tanto il problema di una complessiva sistemazione stemmatica del materiale, quanto le singole questioni riguardanti lezioni e passi controversi e incerti della Commedia. Persuaso dagli spogli personali e antecedenti che una classificazione dei manoscritti fosse vietata dallo stato disperante in cui versa la tradizione, diseguale e discontinua nella qualità degli esponenti antichi e recenti quanto livellata e resistente per incroci e apporti orizzontali e trasversali affatto inestricabili, rinunziò preliminarmente al disegno di uno stemma e alla formazione di un apparato anche parziale, e si dedicò alla ricostruzione genealogica delle singole lezioni, in certo senso spostando dal generale al particolare, dallo schema lachmanniano al dibattito concreto, la problematica testuale. Svincolato da qualsiasi referenza stemmatica, il Vandelli ricostruì così uno per uno i versi più discussi della Commedia, preferendo di massima alle altre la lezione non solo intonata al contesto, ma capace di spiegare geneticamente, all'origine, l'efflorescenza delle varianti, e perciò, in certa misura, antigrafo ideale delle variazioni seriori. L'applicazione dì questo criterio empirico, eseguita con raro equilibrio critico liberò la precedente 'vulgata' da una serie di vischiosi ritocchi e consentì brillanti ricuperi testuali, perché affidata a un esperto specialista del volgare toscano due-trecentesco, che sulla base di Tr, ma con opportuni temperamenti suggeriti dalle sue precedenti esperienze e da quelle collaterali del Barbi e del Parodi, e garantiti dalle parole in rima, restaurò il colorito linguistico del poema nella sua veste fiorentina arcaica, e a un filologo sensibile e agguerrito di fronte al suggerimento delle fonti manoscritte. Ma il criterio generale in linea metodologica dimostrava sin dall'inizio carenza scientifica e incertezze pratiche, perché affidato nelle concrete risoluzioni alle scelte soggettive dell'editore.
Appunto questa esigenza di oggettività lachmanniana interpretò, contrapponendosi non di rado al Vandelli, la ricostruzione critica di Mario Casella, priva anch'essa d'apparato ma poggiante sul primo stemma codicum della Commedia, sia pure fondato su una porzione minima della tradizione, scrutinata tramite un numero esiguo di loci critici. A parte la diversa soluzione prospettata in ordine ai problemi metrici e linguistici del testo, la schematizzazione genealogica avanzata dal Casella, di per sé parziale e sommaria, si presenta assai fragile e incerta nella documentazione e nell'organizzazione. Al sommo della ricostruzione critica della tradizione egli ipotizzò un archetipo settentrionale (romagnolo o bolognese) che non trova persuasivo appoggio negli errori allegati come corruttele comuni ai codici esaminati (si tratta in verità di lezioni plausibili, anche se 'dialettali'); i due gruppi (? e ?) che si dipartono dall'archetipo sono circoscritti in forme provvisorie e generiche, se è vero che il primo, ?, costituito da Mart (di cui Tr sarebbe copia) e da LauSC, tra loro indipendenti, è delimitato all'esterno negativamente, come non ?, e compromesso all'interno da antichi fenomeni di contaminazione, e il secondo, caratterizzato lachmannianamente da errori spesso apparenti, nella fondamentale bipartizione (da un lato il sottogruppo Vaticano e dall'altro, su linee indipendenti rinvianti a un comune antigrafo, lo strozziano e quello dei Cento) confermante conclusioni già note (l'esistenza delle tre soprascritte famiglie), non appare persuasivamente articolato all'interno nelle relazioni reciproche dei propri componenti, se non al vertice nell'accoppiamento del blocco strozziano con quello dei Cento opposti al sottogruppo Vaticano, dato che è affatto trascurata la sistemazione dei piani bassi nei rapporti fra i componenti di ciascun sottogruppo. Sopite le vivaci polemiche intorno all'edizione del Casella, per oltre un trentennio la questione del testo fu dibattuta senza grosse novità prima dal Barbi e dal Vandelli, anche in ordine alle questioni esegetiche provocate da nuove edizioni pregevoli e alimentate da ristampe aggiornate e analisi critiche di vecchi e nuovi commenti, quindi in calce e nelle note alle edizioni recenti più meritevoli (come quelle del Sapegno e del Chimenz) che proposero al testo vandelliano rettifiche e correzioni.
Solo di recente, riprendendo con altra consapevolezza critica un'antica ingenua proposta di Carlo Negroni, che per aggirare il gravoso ostacolo di una collazione completa del materiale aveva suggerito di limitare la recensio alle testimonianze anteriori alla metà del Trecento, e concretando insieme le ultime direttive del Barbi, Giorgio Petrocchi ha riesaminato frontalmente l'intero problema testuale, avviandolo con un'intrepida ricerca filologica su una nuova strada apparentemente mediana tra il sondaggio parziale e lo spoglio completo della tradizione. In realtà egli è partito inizialmente da una duplice esigenza, di ordine rispettivamente pratico e teorico: da un lato sfoltire razionalmente la massa dei codici, selezionando tra essi quelli anteriori al 1355 circa (o riconducibili al di sotto di tale data), cioè quelli precedenti l'intervento decisivo del Boccaccio, onde ridurre di spessore il lavoro materiale della collatio, dall'altro irretire la prima fetta della tradizione, sulla base di spogli integrali, in uno stemma resistente e completo, che comprovasse sulla base documentaria dell'apparato il valore di tutte le scelte. In questo modo egli sbloccava preliminarmente la ricostruzione critica dalle secche teoriche e concrete di una classificazione lachmanniana affatto inadeguata (Täuber, Casella) e di una prassi artigianale insidiata dai pericoli delle oscillazioni empiriche e dei gusti personali (Witte, Moore, Vandelli), riducendo sì la mole del programma ma approfondendo in cambio sino all'esaurimento nell'escussione e nella discussione di tutti gli esiti significativi raccolti dalla collazione integrale, l'indagine settoriale sulla prima diffusione dell'opera. Nell'Introduzione e nel doppio apparato critico egli allarga il 'canone', prudenzialmente volto alla ricostruzione dinamica dell'antica tradizione (secondo l'antica vulgata, come si legge sul frontespizio dell'edizione critica, è il testo al quale tende la nuova esplorazione filologica), fino a comprendervi i più rappresentativi testimoni esterni (cioè seriori) alla scelta e il frutto di tutto il lavoro filologico-esegetico compiuto nel passato. Proprio questa vasta conoscenza garantisce all'impostazione una validità che oltrepassa la convenienza economica e pratica di uno sfoltimento soggettivo della recensio e anche la forza polemica delle nuove proposte genealogiche: perché di qui muove la dimostrazione che il testo base non è tanto o soltanto un comodo punto di partenza o il parametro fondamentale per giudicare delle posteriori avventure incontrate dalla tradizione o semplicemente il primo atto di una ricostruzione programmata su scala vasta, ma l'unico modo per risolvere modernamente l'annoso problema di una ricostruzione critica dell'opera. Per garantire alla propria edizione la qualifica di 'provvisoria' (che non tiene conto dell'intera storia manoscritta e stampata) e di 'critica' (che vaglia scientificamente tutti gli elementi testualmente utili proposti dalla tradizione) egli cerca di dimostrare che l'antica tradizione costituisce l'archetipo di quella recente, che cioè quest'ultima è interamente descripta dalla prima. Nessun manoscritto fra quelli del tardo Trecento scelti come base dagli editori precedenti (in tutto nove) conserva lezioni autentiche e varianti adiafore o criticamente recepibili che non siano già documentate dagli esemplari seriori: tutti in cambio, qual più qual meno, denunciano un coefficiente di erroneità assai più alto rispetto ai rappresentanti dell'antica diffusione. In altre parole la scelta degli esemplari della Commedia, trascritti dalla generazione immediatamente seguente a Dante e precedente le opere più impegnative del Petrarca e del Boccaccio, si giustifica scientificamente per la sua "onnipresenza testuale" sul fondamento dell'esame documentario di tutti i passi discussi, controversi, divergenti anche in lezioni indifferenti, allo stesso modo con cui si legittima il rifiuto dei testi posteriori generati, senza altre interferenze di rilievo, da quelli antichi giunti a noi. La spaccatura in due tronconi qualitativamente diversi della tradizione è culturalmente e storicamente spiegata dall'intervento del Boccaccia, con il quale il processo di alterazione testuale, iniziato forse prima della morte di Dante, che si svolge negli anni seguenti nelle forme solite e normali, tali cioè che la ricognizione filologica può distinguerle, valutarle e impiegarle a fini classificatori, degrada in un fenomeno di eversione totale che rende impossibile quanto inutile l'indagine completa della tarda tradizione con la comparsa e la fortuna delle sillogi boccaccesche che consacrano a regola generale della trasmissione il ricorso alla contaminazione. Ogni esemplare seguente presenta in realtà una tipologia così irregolare, composita e personale di lezioni, che sarebbe vano tentare d'inquadrarle in schemi, e anche sfruttarle per postulare nei piani mediani e bassi dello stemma rapporti di parentela o filiazione. In funzione di controprova il Petrocchi esamina le editiones del Boccaccio, che contaminano il testo di partenza con la tradizione di Triv (ma anche con altre, da Co a Urb), correggendo con qualche arbitraria proposta un testo composito; e quella del Villani, ulteriormente mescidata in oscillanti dosaggi, che confermando nei metodi e rilanciando con vigore la vulgata boccaccesca (quella chigiana in particolare) si presenta come l'ultimo prodotto, dal lato cronologico, che permetta indagini esplorative lachmannianamente vantaggiose.
Dall'ampio regesto dei codici della Commedia allegato in appendice (di gran lunga il più completo ed esauriente fino a oggi) il Petrocchi ritaglia 27 antiche copie anteriori esplicitamente o presumibilmente alla data fissata, le quali vengono sottoposte a una collazione completa: di molte altre egli compie un sondaggio parziale. La classificazione vera e propria di questo materiale è articolata variamente e progressivamente per sezioni, a cominciare da quelle già esaminate in passato, con l'occhio attento anche allo sviluppo cronologico della diffusione, turbata sin dal decennio posteriore alla morte di Dante e anteriore ai testimoni superstiti sì che non esistono più copie assolutamente pure, affatto risparmiate da influssi superficiali o striscianti di altre tradizioni. Il Petrocchi divide la tradizione in due famiglie, l'una (?) toscana, l'altra (?) settentrionale, sulla base di un elenco di varianti separative (cioè erronee), caratteristiche ora della prima ora della seconda, che condannano definitivamente la bipartizione del Casella; che sconfessa la tesi della presenza dell'archetipo, dato che esse rimontano indipendentemente alla copia del poema (O) divulgatasi dopo la morte di Dante; che nega giudiziosamente la possibilità di estrarre dalle lezioni contrastanti dell'antica vulgata varianti d'autore; che infine insegue il disegno stemmatico senza mai scordare le dimensioni cronologiche e geografiche dei componenti. La famiglia toscana si presenta con un numero di testimoni più alto e perciò in forme e suddivisioni assai più complicate dell'altra, divisa sostanzialmente in tre sottogruppi (a, b, c) ricchi d'implicazioni e sviluppi storici orizzontali e verticali. L'apparentamento nella sezione a di Triv e Mart va inteso, sullo sfondo dell'antica tradizione, nel senso che ambedue i codici rimontano a un comune ascendente (anteriore al 1330), fedelmente rispecchiato da Triv e mescidato in Mart, giusta le asserzioni del copista, con l'aiuto di una tradizione non meno antica e autorevole, del tutto scomparsa. Un altro sottogruppo meno compatto e più ricco (b), che raduna sulla stessa linea Co, Ash e Gv, segna insieme il primo sviluppo genetico dell'antica tradizione fiorentina tra il 1330 e il 1340. Tali manoscritti influenzano il più giovane Ham, il quale si avvale tuttavia di un altro antico testimone del sottogruppo ora perduto, parallelo a quelli conservati; e direttamente o attraverso Ham vari altri testi a penna copiati dopo la metà del secolo, tra cui Pa, che però contamina con la tradizione di Vat. Assai più articolato e ricco di storia si presenta il terzo ramo di questa famiglia (c) che da solo rappresenta le vicende del testo dantesco in Toscana tra il 1340 e la vulgata boccaccesca. Al primo periodo (dal 1340 a poco prima del 1350) riconducono le teste di serie del sottogruppo, ossia Ga, Parm, Pr, Vat e Cha, dai quali dipendono direttamente le sorti del testo attorno alla metà del secolo (gruppo del Cento) e poco oltre (gruppo boccaccesco). Mentre Parm, Pr e Cha si limitano a saltuari influssi sulla tradizione seguente, un esemplare coevo testualmente prossimo a Vat (il testo base della vulgata boccaccesca), Ga, capeggia il gruppo 'del Cento': cosicché l'ultimo testo prescelto da ser Nardo e il primo utilizzato dal Boccaccio, risalenti a un comune capostipite, avvicinano e ricongiungono idealmente a un'unica matrice le due più diffuse vulgate. Anche nella definizione interna di questi sviluppi il Petrocchi rettifica le precedenti conclusioni: non solo non esiste all'interno del gruppo del Cento la sezione 'strozziana', dato che i supposti componenti si dispongono in costellazioni irregolari nel più vasto ambito dei Cento, ma cadono anche le proposte classificatorie del Casella, che aveva invocato, per contrapporlo ai Cento, ad antigrafo di questi ultimi un esemplare di altra tradizione e tanto autorevole come La. In cambio egli precisa che i copisti di ser Nardo hanno arricchito il testo di Ga con qualche lezione caratteristica di Parm e Pr, testualmente prossimi all'antigrafo-guida.
Pressappoco nello stesso periodo di tempo in cui sono nati a, b, c, dal capostipite padano si sono bipartite due tradizioni autonome in un ambito assai più ristretto di filiazioni e più povero di influssi: anzitutto d, più tardi contaminata, come appare da La che da solo la rappresenta, con quella toscana attraverso un anello perduto c1. Successivamente La ha toccato con le sue lezioni l'area di pertinenza del sottogruppo b: ma che il più antico codice datato della Commedia in nostro possesso, pur avendo raccolto in composito intreccio i suggerimenti toscani, appartenga sostanzialmente al filone della diffusione settentrionale, è dimostrato dal secondo ramo di questa (e), attestato in epoca più tarda eppure più fedelmente che dagli altri due esemplari collateralí (Rb e Mad: il primo a sua volta si impone sul secondo, saltuariamente contaminato, sia per l'età sia per i pregi intrinseci del testo tradito), da Urb, che in vari esiti testuali, esatti o indifferenti (mai errati), coincide con Triv, comprovando così la propria autorevolezza testuale sulla base della fedeltà, condivisa con il più antico testìmone, alla lezione dell'originale, variata o banalizzata dai colleghi della propria e dell'altra tradizione.
La limitata diffusione della famiglia padana, ben presto soverchiata dalla straordinaria fortuna arrisa al testo dantesco nella patria di Dante, è titolo preferenziale nella scelta dell'editore, quando le due tradizioni sì fronteggiano in lezioni indifferenti, e tanto più nel caso che la testimonianza settentrionale sia confermata dall'intermedio La. Qualora tuttavia ? cada in errore, la preferenza dell'editore critico va a Triv, e scalarmente a Triv-Mart, a La, e così via, secondo una progressiva utilizzazione di tutti i sottogruppi dello stemma. Su questa base il Petrocchi si stacca varie volte dalla vulgata del '21 e dal testo del Casella, soprattutto utilizzando gli apporti della famiglia settentrionale, finora trascurata dagli editori per quella toscana. Di ciò fanno fede non soltanto un manipolo nutrito di nuove lezioni e una serie cospicua di correzioni alle precedentì illazioni genealogiche, ma anche l'esame sistematico dell'antica varia lectio della Commedia, registrato in apparato e discusso prima a fini classificatori e poi con intenti criticamente elettivi in calce al testo, il quale copre con approfondite discussioni l'area di tutti i luoghi controversi dell'esegesi. La documentazione raccolta in apparato costituisce pertanto un punto fermo per le future discussioni, mentre lo stemma orienta sulle ragioni della scelta, riducendo al minimo, in caso di divergenza, la possibilità di soluzioni difformi dalle risultanze genealogiche e gl'interventi arbitrari del lettore, il quale in cambio ripercorre agevolmente attraverso la raccolta dei materiali la genesi delle alterazioni e delle varianti dalla lezione originale. Calato finalmente nella storia concreta della diffusione, il nuovo testo critico s'impone sui precedenti anche in virtù del colorito linguistico, fondato sul più autorevole rappresentante della prima vulgata fiorentina (Triv), considerato lo specchio meno deformante, negli usi costanti e nelle oscillazioni, delle consuetudini dantesche, costantemente controllato sui compagni della stessa tradizione attraverso un largo spoglio selettivo.
6. Struttura generale del poema. - Anche un esame veloce della struttura esterna e interna del poema conferma la geniale opera selettiva di Dante all'interno della tradizione cristiana nei riguardi delle fonti antiche e recenti, avvedutamente sfruttate e trasformate in una nuova costruzione etica e fantastica. È stato facile segnare i debiti di Dante verso la tradizione: nella prima cantica egli impiega, nella classificazione delle colpe e la distribuzione dei dannati, l'Etica nicomachea e la Retorica di Aristotele con i loro commenti medievali, ma contemporaneamente si avvale di s. Tommaso per quel che riguarda il cerchio degli eretici, dei Mythologiarum libri di Fulgenzio Planciade e del De Officiis di Cicerone per le partizioni della malizia e della frode. E ancora, per quanto riguarda il secondo mondo, si potrebbe ricordare che la collocazione del Paradiso terrestre su di un monte proviene dalla patristica orientale, che la sua ambientazione nell''aer puro' era già sostenuta da scrittori come Alessandro di Hales e s. Bonaventura, che il libero arbitrio è definito secondo schemi boeziani, che la ripartizione delle anime è governata da criteri aristotelico-tomistici (ricavati da Ugo da San Vittore e dal commento di s. Tommaso all'Etica di Aristotele) applicati ai vizi capitali nell'ordine stabilito dai Moralia di s. Gregorio Magno (e seguito da molti altri scrittori cristiani).
Dante immagina che l'Inferno, creato da Dio al tempo della ribellione angelica, sia costituito da un'ampia voragine sotto la superficie terrestre nell'emisfero boreale abitato (sul centro di essa sovrasta in terra la città di Gerusalemme). Lucifero, cacciato dal cielo, fu precipitato da Dio nell'emisfero australe, al centro fisico della terra. In seguito alla sua caduta le terre dell'emisfero australe si ritrassero e formarono i continenti poi abitati dall'uomo, mentre nello stesso emisfero una massa di terra, per evitare il contatto di Lucifero, risalì in mezzo all'oceano formando, agli antipodi di Gerusalemme, una grande montagna ove fu la prima dimora dell'uomo, e che poi, dopo l'incarnazione di Cristo, ospitò il Purgatorio, al cui sommo si trova la foresta del Paradiso terrestre. Disceso attraverso i cerchi infernali sino al cuore della terra, Dante giunge al monte dell'espiazione attraverso una via sotterranea scavata dal corpo del maligno. Anche la raffigurazione del Paradiso riposa su dati della tradizione religiosa e scientifica giudaico-cristiana, complicata da apporti arabi e, tramite questi, greci, giunti a Dante attraverso versioni latine, e arricchita dai trattati cosmogonici del Medioevo, come sappiamo dalle citazioni e dalle conoscenze astronomiche e astrologiche del Convivio; eppure si presenta sinteticamente nuova nel sistema dei cieli di cui si compone (i sette dei pianeti, quello delle Stelle fisse e il Primo Mobile), sfere concentriche e incorruttibili di materia e forma variamente dosate, mosse dalle gerarchie angeliche (pura forma) e ruotanti intorno alla terra (considerata secondo il sistema tolemaico immobile al centro dell'universo) con circonferenza via via più ampia e velocità progressivamente maggiore, e tutte comprese nell'Empireo, il cielo di pura luce eternamente immobile e infinito fuori dallo spazio e dal tempo nel quale Dio trionfa con i beati. Questa grandiosa costruzione è ordinata provvidenzialmente secondo leggi eterne che rievocano il grande dramma della lotta tra il bene e il male, nel quale la storia dell'uomo, ripresa dalle fonti bibliche, è illuminata dalla filosofia patristica, neoplatonica e scolastica.
7. Ordinamento morale. - A rispondenze simmetriche e allegoriche ben calcolate obbedisce l'ordinamento morale dei tre regni (solo il primo e il terzo eterni), divisi all'interno rispettivamente secondo le colpe (Inferno), le inclinazioni peccaminose (Purgatorio), le attitudini virtuose (Paradiso). La partizione delle anime in ciascuno di questi regni, come il loro aspetto, perfettamente rispondente alla natura del castigo eterno o della pena purificatrice o del gaudio perenne, direttamente collegati ai tratti fondamentali delle diverse esperienze terrene, è governata da leggi morali in stretto rapporto con il loro destino.
Nell'Inferno esse sono distribuite, giusta lo schema classificatorio di Aristotele, secondo la loro tendenza al male (incontinenza e malizia) e il modo con il quale hanno peccato (la malizia distinta in violenza - a sua volta tripartita, in base all'oggetto sul quale si esercita, il prossimo, sé stessi, Dio e in frode, analogamente bipartita, nei riguardi di chi non si fida e di chi si fida), in costante correlazione di colpe e pene via via più gravi a mano a mano che i nove cerchi digradanti stringendosi verso Lucifero si allontanano da Dio anche fisicamente. Così dopo gl'ignavi che dimorano nel vestibolo, il primo cerchio dell'Inferno è formato dal Limbo, popolato dagl'infanti morti senza battesimo e dai pagani giusti vissuti prima della rivelazione cristiana; seguono i quattro cerchi degl'incontinenti (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi), nei quali la passione ha travolto i confini della ragione. Dopo il sesto cerchio, con il quale inizia il basso Inferno e nel quale sono puniti gli epicurei, trovano posto nel settimo, suddiviso in tre gironi concentrici variamente abitati (nel primo i violenti contro il prossimo sono distinti in tiranni e omicidi, nel secondo i violenti contro sé stessi in suicidi e scialacquatori, nel terzo i violenti contro Dio in bestemmiatori, sodomiti e usurai), coloro che peccarono usando violenza. I fraudolenti contro chi non si fida occupano l'ottavo cerchio, ripartiti, secondo la natura della frode, nelle dieci bolge concentriche di cui esso si compone (seduttori e mezzani, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, mali consiglieri, seminatori di scismi e discordie, e infine falsatori: di metalli, di persona, di moneta e di parola); nell'ultimo cerchio sono confitti nel gelo di Cocito i traditori - dei parenti, della patria, degli ospiti, dei benefattori - che in Lucifero, traditore di Dio, il quale morde Giuda, traditore di Cristo, e Bruto e Cassio, traditori dell'Impero, trovano il principio primo della loro malvagità.
Lucifero è situato nel punto più lontano da Dio, fra le tenebre del male: al sommo della montagna del Purgatorio verdeggia il Paradiso terrestre, ove un tempo l'uomo visse innocente e ritorna purificato prima di ascendere ai cieli paradisiaci, rispetto al quale Gerusalemme, il luogo della morte patita da Cristo per la redenzione degli uomini, si trova agli antipodi. Il mistico viaggio dantesco ripercorre a ritroso, anche fisicamente, il cammino dal bene al male compiuto dall'uomo, configurandosi come esperienza personale di chi, attraverso la visione dei castighi eterni e delle pene purificatrici, gli uni e le altre richiamanti direttamente o per contrari le colpe terrene, giunge dalla selva infernale alla contemplazione di Dio, dal peccato alla salvezza. Le rispondenze simboliche si concretano simmetricamente sulla pagina nella sceneggiatura strutturale ed esterna del poema: sin dalla data prescelta per il fantastico viaggio, la primavera del 1300, ossia l'anno del giubileo coincidente con quello, riferito a Dante stesso, della vita mediana, e la sua durata (sette giorni, sia che inizi l'8 aprile, ossia il venerdì santo che ricorda il sacrificio di Cristo, sia che cominci, come altri vogliono, il 25 marzo, data che a un lettore medievale richiamava, in singolare coincidenza, la creazione di Adamo, il concepimento e la morte di Cristo), ambedue precisate con riferimenti oggettivi, a differenza dello smarrimento nella selva del peccato, circondato da un'atmosfera misteriosa. La saldezza dell'architettura esterna è garantita dall'analogia tra le nervature interne che assicurano ai tre regni e alle tre cantiche proporzioni stabili e alla loro varietà un principio unitario: tre sono le cantiche (ciascuna terminante con stelle), come i regni che descrivono; ogni cantica è formata da trentatré canti costituiti pressappoco da un egual numero di versi raggruppati in terzine, cui va aggiunto un canto proemiale all'intero poema (il primo dell'Inferno); riunite tre a tre le diverse categorie di anime che le popolano (nella prima incontinenti, violenti, fraudolenti; nella seconda coloro che diressero il loro amore al male, amarono poco il bene, amarono troppo i beni terreni; nella terza gli spiriti saeculares, activi e contemplantes). In questo modo i due numeri perfetti della tradizione medievale, il tre e il dieci, o i multipli di loro stessi, presidiano l'intelaiatura esterna e la distribuzione interna: l'Inferno è formato di nove cerchi (con il vestibolo si arriva al fatidico dieci); il Purgatorio si compone di nove parti, la spiaggia dell'approdo, l'antipurgatorio e le sette comici (con il Paradiso terrestre si raggiunge il numero fatale); il Paradiso comprende i nove cieli del sistema tolemaico, aumentati con l'Empireo di una unità.
Mutano con la natura delle pene i criteri morali che reggono il disegno del Purgatorio, il mondo dell'espiazione destinato a finire. Il principio ordinatore, premesso che nella parte bassa del monte sostano le anime pentite in fin di vita e quelle morte scomunicate, e nelle prime balze dell'Antipurgatorio i neghittosi, i morti violentemente e i principi negligenti, si fonda sul concetto di amore, congeniale alla natura umana e fonte di virtù o vizi. L'amore diretto al male del prossimo riunisce nelle prime cornici coloro che hanno errato nella scelta dell'oggetto da amare (rispettivamente superbi, invidiosi e iracondi); tra questi e quelli che hanno amato oltre il debito i beni terreni (avari, golosi e lussuriosi) e occupano le ultime tre balze, s'interpongono nella quarta cornice gli accidiosi, colpevoli di avere tiepidamente coltivato l'amore vero, quello divino. In tal modo la categoria dei sette vizi capitali è agganciata a leggi morali che ordinano le colpe, a differenza dell'Inferno e in armonia alla natura del secondo regno, posto tra terra e cielo come mezzo per ascendere da quella a questo, dalle più alle meno gravi.
Nel Paradiso, Dante immagina che i beati, dimoranti tutti nell'Empireo, più o meno prossimi a Dio secondo il grado della loro felicità, gli vengano a mano a mano incontro nei cieli, da quello della Luna a quello di Saturno, per offrirgli l'immagine concreta della loro beatitudine, caratterizzata dagl'influssi esercitati sulla terra e sugli uomini dalle sfere celesti, e rafforzare i suoi sensi visivi perché sostengano la visione della Trinità. L'espediente sottolinea la natura affatto simbolica della distribuzione delle anime, voluta da Dante (che forse anche per questo tace i criteri generali della partizione) per ragioni di analogia simmetrica con gli altri due mondi e di convenienza gerarchica, ben rispondente al progressivo aumento della felicità di cielo in cielo; e permette insieme di tradurre in immagini più sensibili e varie l'unitario e astratto mondo del gaudio eterno. Perciò non sono mancate in passato, e continuano ancor oggi, seppur in tono minore, le discussioni degl'interpreti intorno ai fondamenti morali dell'ordinamento fittizio, esplicito nelle partizioni specifiche (nel cielo della Luna sono allogati gli spiriti che mancarono ai voti monastici, in quello di Mercurio quelli che operarono per la gloria terrena, nella sfera di Venere le anime disposte naturalmente all'amore che trasferirono gli affetti dalla terra a Dio, in quella del Sole i sapienti, in Marte i combattenti per la fede cristiana, in Giove i principi giusti, in Saturno gli spiriti contemplativi), non nelle coordinate generali che le reggono (nel cielo delle Stelle fisse compaiono Adamo e gli apostoli, nel Primo Mobile le gerarchie angeliche). Del resto il Paradiso vero e proprio, quello della rosa, risulta diviso in modo ancor più sfuggente, secondo generiche linee di demarcazione, che non rinviano immediatamente e necessariamente a dei precisi criteri morali. Si tratta in verità di una topografia affatto libera e polivalente, in contrasto manifesto con la divisione univoca degli altri regni rispondente ai concetti del male e della purificazione, e in armonia all'infinita varietà del bene che informa il Paradiso.
Tra le varie proposte interpretative dei criteri generali che presiedono alla costruzione del Paradiso ci limiteremo a rammentare quella che vede riflessa in essa la dottrina tomistica dei tre gradi conoscitivi (dei corpi celesti corrispondenti ai sette pianeti, degli spiriti celesti cioè degli angeli, di Dio nell'Empireo), che all'interno del primo grado articola in tre momenti la fiamma della carità (incipiente, proficiente, perfetta: il primo comprende il cielo della Luna, il secondo i tre seguenti, l'ultimo i tre finali). Ma ancor più suggestivo ci sembra il richiamo dantesco dell'Epistola citata (xiii 80) a Riccardo da San Vittore, dal quale possiamo inferire che Dante ha inteso riproporre nella descrizione della sua ascesa a Dio, pur senza marcarne nettamente i passaggi, i sette gradi di ascendente perfezione visiva che s. Bonaventura nell'Itinerarium mentis in Deum distingueva nel cammino mistico dell'anima che si alza alla contemplazione divina. La prima suddivisione bonaventuriana in tre gradi a seconda che l'anima contempla ciò che è sotto, dentro, sopra di sé, si rispecchia nella fondamentale tripartizione del Paradiso dantesco (le sette sfere, le Stelle fisse e il cielo cristallino, l'Empireo). Su questa base non solo si spiegano i vari aspetti nei quali le anime si presentano e i mutamenti del paesaggio paradisiaco, ma si integrano vicendevolmente, senza fratture d'ordine metafisico e teologico, collegandosi insieme, anche se distinti, il Paradiso delle sfere e il Paradiso della candida rosa. Nel Paradiso vero e proprio il criterio distintivo della beatitudine è costituito dalla carità: nel Paradiso delle sfere esso è affiancato da un giudizio etico-morale che classifica le anime secondo le virtù umane, cardinali e intellettuali. Perciò nelle sfere il libero arbitrio, nell'Empireo la Grazia dominano e discriminano la sorte delle anime. Nel primo difatti esse si presentano secondo i meriti acquisiti sulla terra in base a scelte libere, fondate sulla natura, determinata insieme dagli astri e dalla volontà personale, offrendo al lettore la possibilità di giudicare intorno al loro destino con immediate relazioni tra il premio e il merito. Il sistema dei cieli, che la scolastica aveva accolto dalla matrice platonico-aristotelica, consente a Dante di ordinare i beati secondo la natura tipica loro, prodotta dagli influssi stellari e dal libero esercizio della virtù, e di disporli secondo le tre fondamentali categorie del tempo, la vita mondana, attiva e contemplativa. Nella vita mondana, che in sé, difettando di carità, è mancanza di virtù, sono compresi gli spiriti che appaiono nei primi tre cieli (dove appunto giunge l'ombra della terra); nella vita attiva essi sono ripartiti secondo le virtù cardinali nel cielo del Sole (prudenza e scienza: l'una pratica, l'altra speculativa), di Marte (fortezza) e di Giove (giustizia); l'ultima delle virtù, la temperanza, nella sua accezione eroico-ascetica accompagnata alla sapienza, raccoglie nel cielo di Saturno le anime dei contemplanti. Nell'assemblea della candida rosa, che moltiplica all'infinito il Paradiso delle sfere, sono potenzialmente adombrate le tre suddivisioni attuate nei cieli, non precisate dall'infinita molteplicità dell'Empireo. Ma poiché nel Paradiso delle sfere è rilevata l'attività umana e in quello della rosa la volontà divina, Dante aggiunge nell'Empireo al criterio costante un diverso metro di giudizio, voluto dalla Grazia divina che misteriosamente ha predestinato un'altra tipartizione delle anime per gruppi (a destra i cristiani, a sinistra gli Ebrei, in alto gli adulti, dal mezzo in giù gl'infanti), articolando così in forme aperte, sfumate, innumerevoli, l'eterno mondo della beatitudine.
8. Allegoria. - Nei suoi Etymologiarum sive originum libri XX, Isidoro da Siviglia, uno degli auctores di rito nell'enciclopedia medievale, così chiosa il termine: "Allegoria est alieniloquium. Aliud enim sonat, et aliud intellegitur, ut [Virg. Aen. i 184-185] 'Tres litore cervos / conspicit errantes': ubi tres duces belli Punici, vel tria bella Punica significantur. Et in Bucolicis [III 71 ] 'Aurea mala decem misi', id est ad Augustum decem eglogas pastorum" (I XXXVII 22); e poi aggiunge: "Inter allegoriam autem et aenigma hoc interest, quod allegoriae vis gemina est et sub res alias aliud figuraliter indicat; aenigma vero sensus tantum obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus" (§ 26). Come alieniloquium pertanto, l'allegoria rientra fra i tropi metaforici; come transumptio difficilis, è capace di nascondere dietro una serie di metafore continuate un concetto, sino a diventare, come doveva notare qualche secolo dopo Buoncompagno da Signa, "quoddam naturale velamen sub quo rerum secrets occultius... proferentur" (Retorica novissima, II 281). Sebbene già gli antichi ponessero in guardia contro il pericolo di questo procedimento letterario, mentre si ammette, poi, con i tardi esegeti omerici, che esso è caratteristico dei poeti, nella cultura medievale che vede nascere la Commedia, l'allegoria risulta molto di più del complesso artificio a cui talvolta acconsentirono gli antichi, dalla filologia pergamena all'esegesi dello Scudo esiodeo al Proclo della dissertazione Sull'antro delle ninfe dell'Odissea fino al Physiologus dello pseudo-Epifanio. Essa presuppone un abito di pensiero, una mentalità emblematica che si associa a un'ontologia metafisica in cui è possibile rappresentarsi l'universale come se fosse una cosa concreta, e s'inquadra in una visione critica dell'universo secondo cui il libro della natura riceve luce di continuo dal testo sacro, che è il libro di Dio: al linguaggio dei verba si contrappone il linguaggio delle res, signa translata, intese come simboli esistenziali di una teologia della storia misteriosamente unitaria.
Questa Weltanschauung sostanzialistica e analogica, in cui l'uomo vede a un tempo, con un solo sguardo la cosa e il suo senso, l'aspetto sensibile e ciò che è di là dal sensibile, il gesto umano e il suo valore di rito, i colori e la loro corrispondenza misteriosa nell'anima, spiega l'attenzione vivacissima degli uomini medievali per i sovrasensi liturgici e iconografici (la cattedrale come biblia pauperum, in cui tutto dal verticalismo all'orientamento, dalle statue alle vetrate parla mistice), l'attitudine a rileggere i classici dell'antica letteratura nella ricerca di prefigurazioni cristiane o spirituali, l'interpretazione del libro della natura come di un libro mistico e dei libri sacri come archetipi di scienza, filosofia, storia e morale: si tratta di ciò che il Lewis nel suo libro Allegory of Love propone di chiamare, meglio ancora che simbolismo, sacramentalismo e un Le Goff definirebbe "struttura per analogia per eco". La stessa tradizione poetica di cui Dante è certo partecipe, aveva proposto la figura di un poeta theologus capace di congiungere poesia e scienza e di fornire ai lettori cibo di sapienza in poemi che, da un punto di vista strutturale, sono da considerare tra gli antecedenti della Commedia e la ritrovava inoltre nella pratica esegetica dei grandi scrittori del passato assunti come sintesi allusiva di ogni sapere. È da dire, per altro, che questa mentalità simbolica implicante, per la letteratura, un pubblico in consonanza con la logica praticamente enigmatica dell'opera d'arte e delle sue senefiances, passa attraverso complesse vicende di cui non si è ancora tracciata per intero la storia: solo negli ultimi decenni i dibattiti fra i critici dell'allegoria a quelli della lettera hanno cominciato a portare qualche luce anche nel campo della personificazione e della tipologia iconografica medievale. Se da una parte le indagini di uno Jauss mostrano che la tradizione letteraria profana trova nel Roman de la Rose una nuova forma di 'double sens' dove il segno, rispetto al modello lontano della Psychomachia, è insieme finzione e verità, e spetta a Brunetto Latini, con il suo Tesoretto, in un'area ormai dichiaratamente dantesca, la scoperta di una fabula allegorica che si costruisce sulla storia e sulla biografia di un io narratore, dall'altra le indagini di uno Spicq, di una Smalley, di un De Lubac, di un Daniélou e persino di un Glunz, hanno messo in evidenza, all'interno dell'esegesi biblica una varietà di esperienze, di discussioni e di scuole in cui sono da vedere altrettante risposte, dettate da ragioni storiche diverse, al principio ermeneutico di una parola a più livelli di significato, tutti compresenti in un verbum che è storia, signum transitivo e insieme res insostituibile. Ciò che resta fermo nella prospettiva interpretativa medievale del testo sacro, sotto una terminologia tutt'altro che coerente è la certezza che ogni simbolo del dialogo fra Dio e l'uomo, in quanto corrispondenza fra vari momenti della storia sacra, nasca sempre su di una verità storica, sulla haecceitas di un personaggio o di un evento, il cui significato si completa nella totalità organica del piano divino, così come le figure dell'Antico Testamento richiamano costantemente, in una prodigiosa rete analogica, i gesti, le opere di Cristo nel Nuovo e ne ricevano una significazione più profonda (si vedano le coppie tipo-antitipo Eva-Maria, Adamo-Cristo, Mar Rosso-battesimo). Indipendentemente dalla possibilità di dedurre diversi piani di riferimento mistico, l'allegoria si definisce in questo caso come un simbolismo tipologico o figurale d'ordine storico, fondato sulla verità autentica di un evento, e si contrappone strutturalmente al senso riposto della mitologia e della poesia antica dove invece, anche quando ne emana una rivelazione di sapienza, il simbolo procede sempre da una fictio umana, al di qua delle res storiche e della loro interna sintassi divina. È vero, d'altra parte, che questa distinzione tende ad attenuarsi nell'atto concreto dell'ermeneutica, dove la semantica del reale, cioè la tipologia, si sposta di continuo verso la semantica della parola (che è poi l'allegoria) e assume i caratteri di un virtuosismo analogico che si sovrappone spesso al tracciato del senso letterale, anche se è costante, nei grandi maestri, la preoccupazione di ricondurre sempre il sistema dei sensi mistici alla priorità della lettera. Questo spiega le oscillazioni e le incertezze che si ritrovano nelle stesse pagine dei teologi, in un s. Tommaso per esempio, di fronte a una tecnica di cui non era sempre facile definire i limiti di uso, e che diveniva ancor più fluida, per non dire approssimativa, quando ci si trasferiva nel mondo della letteratura e vi si incontrava, si pensi a Chétien de Troyes, la distinzione tra matiere, sens e senefiance oppure tra cortex e nucleus, sempre nell'intento di riaffermare un secondo termine del simbolo verbale secondo la libertà di una combinazione linguistica di cui il lettore doveva essere attivamente partecipe.
Lo stesso Dante, dopo avere già discusso nella Vita Nuova (xxv 8 ss.) il problema della 'personificazione', si è sforzato di chiarire che cosa intendesse per allegoria nelle pagine del Convivio e nella Epistola a Cangrande, dove sono da vedere, in un certo senso, i prolegomeni di una poetica allegorica della Commedia. In Cv II I 2-3 ss. il poeta ci informa che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale [... che non si stende più oltre che la lettera .... L'altro si chiama allegorico], e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti... Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria. Benché sopra ciascuna canzone del Convivio il poeta userà la litterale sentenza e dopo quella... la sua allegoria, sfiorando incidentalmente gli altri sensi (II I 15), il luogo è importante, non solo per gli exempla canonici addotti (per il senso allegorico Orfeo, che facea con la cetera mansuete le fiere, allegoria degli uomini savi che con la voce umiliano li crudeli cuori; per quello morale Cristo, che condusse seco solo tre apostoli sul monte della trasfigurazione, tropologicamente a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia; per quello anagogico il salmo 113 nell'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, vero secondo la lettera e spiritualmente, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa a libera), ma perché unisce all'allegoria tradizionale 'lettera-concetto', teorizzata da Fulgenzio, la possibilità di un'allegoria biblica che postuli un testo reale historice et mistice, illustrato nel salmo 113, esempio canonico in questo genere di discussioni.
Nell'Epistola a Cangrande l'adesione al modello allegorico biblico appare più stretta e consapevole, senza residui contaminatori, come al termine di un travagliato processo di approfondimento espressivo e speculativo a cui corrispondono le rivelazioni, le scelte radicali di una Commedia. Per garantire la qualità summatoria e didascalica del poema, Dante afferma che fines totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis (§ 39), cioè dal peccato alla Grazia, e aggiunge che questo avviene nella forma della visione, permessa anche a un peccatore in quanto Dio aliquando misericorditer ad conversionem, aliquando severe ad punitionem, plus et minus, ut vult, Gloriam suam quantumcunque male viventibus manifestat (§ 82). Quanto all'allegoria, che deve lasciar intendere al lettore il morale negotium dell'opera, lo scrittore insiste sulla 'polisemìa' della Commedia, citando ancora (§ 20, 21) i quattro sensi teologici letterale, allegorico, morale, anagogico, ma richiamandosi con l'esegesi del salmo cxiii (In exitu Israel de Aegipto... si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Aegipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum gratiae; si ad anagogicum, significatur exitus animae sanctae ab huius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem) non più all'allegoria dei poeti, ma a quella del testo sacro, secondo la quale nulla è pura fictio dai verba alle res tutto è reale, anche se poi può essere svolto in una forma parabolica che chiama in causa l'ordine dell'universo e le funzioni stesse del linguaggio, magari ricorrendo all'artificio di attribuire a Dio mani e piedi pur di trasmettere all'intelletto umano un barlume di verità. Il rapporto istituito da Dante tra allegoria dei poeti e tipologia biblica emerge anche, con adeguata chiarezza, allorché l'Epistola (§ 27) parla della forma sive modus tractandi della Commedia: accanto ai modi della retorica poetica fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, troviamo insieme (et cum hoc, dice lo scrittore) i modi difinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus, tipici, di solito, dell'esegesi dei testi sacri.
Dante chiede dunque ai suoi lettori un'operazione straordinaria, che resta tale anche nel caso in cui l'Epistola non fosse sua. Intrecciate a quelle dell'Eneide, le immagini e le situazioni bibliche, che legano il linguaggio del suo racconto, esigono una sensibilità disposta a muoversi entro un''allegoria' fondamentale di tipo biblico, onde la Commedia è storia reale per parabola dell'homo viator (storicizzato nel drammatico 'io' del poeta operante in un mondo storicamente determinato) che passando attraverso la storia e l'esperienza del peccato e della redenzione giunge a divenire homo comprehensor dell'ordo universalis. D'altro canto, la Commedia si lega anche alla capacità di rilevare i figmenta, gli integumenta, gli exempla suggeriti da una raffinatissima ars poetica per dimostrare corposamente temi intellettuali e rappresentazioni che possono vivere solo nell'ambito del modo poeticus, se si deve continuare a credere che il poema sorge da un ordine provvidenziale sul piano delle res, ma non è garantito, come i verba della Bibbia, da una rivelazione certa e indiscutibile.
Proprio per questa sua natura composita, in cui è da ravvisare forse un altro aspetto della genialità inventiva dantesca, viene poi da domandarsi come sia da intendere, allora, la fictio della Commedia, poiché se si accentua il suo aspetto immaginativo si compromette la dimensione della 'verità' biblica e se viceversa si insiste sul carattere storico della narrazione si postula una specie d'identità col testo sacro che, assumendo l'ipotesi totalitaria di un'esegesi applicata alla parola di Dante, può risolversi solo ponendo l'idea di una visione, di una profezia fra Antico Testamento e millenarismo medievale. È vero per altro che Ulrico di Strasburgo affermava che la teologia ammette il "modus poeticus quando veritatem sub integumentis ponit, ut in parabolis sacrae scripturae". Si osservi che, alla fine, si ritorna ancora alla questione del realismo dantesco e di una sintesi 'figurale' che costituisce, per dirla con l'Auerbach, un unicum nella storia della letteratura europea, anche a considerarlo in rapporto al tema del 'viaggio'. L'allegoria del poema è per l'appunto un viaggio dal peccato (la selva) alla salvezza (la luce divina) con più guide (Virgilio, Stazio, Beatrice, s. Bernardo), incarnazioni anch'esse di una dialettica tra ragione e fede, attraverso paesaggi esemplari di un'umanità disperata, penitente o gioiosa, che trascrive nel libro vitale dell'eternità e della giustizia le scelte compiute in via, nel mondo della storia. All'interno di questa grandiosa costruzione, il poeta ha inventato un sistema di figure congiunte da una simbolica dinamica a questo rapporto di dannazione e di salvezza: le fiere infernali, il veglio cretese, i demoni, la processione dell'Ecclesia triumphans del Purgatorio, la mistica rosa del Paradiso, gli astri e i gesti simbolici del poeta, i simboli cristomimetici e geometrici del Paradiso (Aquila, Croce, l'ingigliarsi a l'emme). La capacità di decodificare le allegorie della Commedia, che agli occhi di una esegesi sensibile paiono spesso moltiplicarsi in un vero universo simbolico, è sempre stata presente negli esegeti fino dal secolo xiv, tra quelli che ebbero notizia dell'Epistola a Cangrande (citata espressamente da Filippo Villani nel suo Comentum, ma usata da Iacopo, dal Bambaglioli, dal Lana e anche dal Boccaccio): anzi proprio al Boccaccia si dove un tentativo di esegesi sistematica, forse non sempre pertinente e con argomenti nella tradizione di Bernardo Silvestre, ma di notevole importanza, dato il nome dell'autore. Si direbbe, comunque, che per quanto vicini allo scrittore della Commedia e alle riflessioni più interne del suo linguaggio, questi antichi esegeti si accontentino di un'ermeneutica eclettica, dove i motivi allegorici e quelli tipologici si confondono insieme in modo quasi aneddotico. Carattere di frammentarietà persiste anche in commentatori, pur linguisticamente assai sensibili, come l'Ottimo e Benvenuto, portati sovente a sforzi di un moralismo crittografico, reperibili ancora nei tardi Commenti di aria quattrocentesca di un Landino (che adotta anche sottili filtri neoplatonici) e del più benemerito Serravalle. La materia allegorica non riceve nuovi lumi nella cultura del Cinquecento, più sensibile all'indagine sulla lingua poetica (si pensi a certe postille delle Prose della volgar lingua del Bembo, alle Lezioni su Dante di Benedetto Varchi, agli Studi di Vincenzio Borghini o alla Sposizione di XXIX canti dell'Inferno del Castelvetro), anche se qualche traccia di lettura simbolica è reperibile nel Discorso sopra la prima cantica del divino theologo Dante Alighieri di Vincenzo Buonanni o nel Commento di Bernardino Daniello. In fondo è già cominciato un processo di straniamento, anche se continua a fiorire nel mondo figurativo una mentalità emblematica, che riduce l'allegoria a un prodotto astratto e che, dopo Lutero, espunge anche dalla lettura del testo sacro il gusto della comprensione mistica, comune a tutta la teologia medievale.
A parte il silenzio che avvolge nel Seicento e nel Settecento il problema allegorico dantesco, da cui emergono appena il Commento sui primi cinque canti dell'Inferno di Lorenzo Magalotti e poche postille delle Illustrazioni alla Divina Commedia di Filippo Maria Rosa Morando, oltre alle pagine del Vico, un'impostazione storica moderna spetta al grande Commento (1865) di Nicolò Tommaseo, ricco di numerosissimi riferimenti biblici che spostano l'attenzione dei lettori verso l'area autentica della sensibilità dantesca, più ancora che alle meritorie analisi filosofico-linguistiche destinate a condurre dal Cesari al Foscolo (pronto per altro a sostenere luminosamente che "chiunque considera nell'autore il poeta anziché il legislatore di religione, Dante e questo secolo... si rimarranno mal conosciuti ") alla scuola dei D'Ancona, Rajna, e magari Scartazzini, Blanc e Witte. Bisogna attendere il tardo Ottocento, tra sfrangiature positivistiche e insorgente spiritualismo, perché, sul filone di una cultura romantica esoterica, si abbiano le prime ricognizioni intorno all'allegoria dantesca: ne sono altrettanti esempi la Beatrice svelata di T. Perez, dove l'allegoria diventa mistero con preoccupazioni crittografiche e, all'inizio del Novecento, libri come quelli di P. Chistoni, I simboli degli alberi e delle selve nella Dante Commedia, Milano 1910; F. Flamini, Il significato e il fine della Dante Commedia, Livorno 1916; G. Pascoli, Minerva oscura, Livorno 1918; Conferenze e studi danteschi, ibid. 1921; Sotto il velame, ibid. 1923; L. Pietrobono, Il poema sacro. Saggio di una interpretazione della Divina Commedia, Bologna 1915, e Saggi Danteschi, Roma 1936; L. Valli, ll segreto della Croce a dell'Aquila nella DanteCommedia, Bologna 1922; La chiave della Divina Commedia, ibid. 1926, a cui si contrapponevano in altra area storica le solide indagini enciclopediche di Karl Vossler (La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, trad. ital. Bari 1927); sebbene sia da dire che il Pascoli vedeva giusto quando insisteva sullo studio sistematico del linguaggio simbolico della Commedia e vagheggiava, per così dire, una filologia sensibile anche al dizionario spirituale del poema. Ma si trattava sempre di un gusto d'opposizione, trascinato a nuove forme di critica celebrativa pericolosamente incline alla logica capricciosa degl'iniziati.
Più che comprensibile quindi la reazione di Croce ne La poesia di Dante, coeva dell'edizione di tutte le opere di Dante della Società dantesca, che separava la poesia dall'allegoria ("romanzo teologico") negando a quest'ultima ogni valore espressivo al di fuori della testimonianza di un errore legato alla cultura di un'epoca e alle finalità "pratiche" di un programma letterario. Anche la chiarificazione crociana non risolveva però il problema della forma interna della Commedia, perché rinunciava in partenza a un'analisi storica dell'allegoria o ne cercava soltanto le premesse psicologiche; ma da essa usciva intanto per ogni dantista il fermo invito a rimeditare con nuovo rigore storiografico lo spessore culturale della parola dantesca nel suo intimo itinerario fantastico. Se vogliamo subito passare ai testi più significativi di questo dialogo diretto o indiretto, che non poteva naturalmente restringersi alla sola area italiana, è da avvertire che dopo le vecchie esplorazioni del Moore, il ritorno interpretativo all'allegoria biblica, tipologica o figurale che si voglia chiamarla, si associa, ai nomi di Erich Auerbach a di Ch. S. Singleton. Il primo, partito da alcune intuizioni dell'Estetica hegeliana, in una vasta serie d'interventi ha posto in consonanza l'interpretazione figurale della Bibbia, secondo la quale fatti e figure del Vecchio Testamento prefigurano la vita di Cristo (loro autenticazione) con l'idea tomistica che nessun uomo può realizzare, se non nell'aldilà, la propria individuale essenza umana; proiettata nella struttura della Commedia si raggiunge così un'idea allegorica coincidente con la rappresentazione, sullo sfondo dell'eternità del giudizio divino, della contingenza degli eventi storici composti in valori assoluti. Su una via parallela si è posto il Singleton, aperto ai canoni esegetici dell'Epistola a Cangrande, affermando che la Commedia, scritta non secondo la bella menzogna dei poeti, ma conforme all'allegoria dei teologi in cui i quattro livelli esegetici sono sentiti come un incontro delle varie dimensioni del reale, è un viaggio nell'aldilà che riflette analogicamente il nostro, qui in terra, e l'uno e l'altro sono l'itinerarium in Deum dell'inquieto cuore cristiano, imitazione dunque della rappresentazione biblica nelle figure dell'esodo e del ritorno. Il significato del poema starebbe in questo intimo compenetrarsi di prospettive, in cui il "simbolismo" è l'imitazione della struttura del mondo reale, e l'allegoria " imitazione della struttura dell'altro libro di Dio, la sacra scrittura". Nell'area più propriamente italiana, un posto di primo piano va al Barbi, maestro della filologia dantesca accanto al Rajna a al Parodi. Il Barbi nella voce Dante redatta per l'Enciclopedia Italiana, con un cauto storicismo problematico, ha discusso il pericolo delle prevaricazioni della struttura sul ritmo narrativo a poetico, osservando come "a prescindere dalle allegorie o fatte credere da Dante stesso con le sue affermazioni nella Epistola a Cangrande o immaginate dalla sottigliezza degl'interpreti, c'è una allegoria pensata nella prima ideazione del poema, ma questa è così generica e leggera che non impedì o ingombrò affatto la creazione particolare successiva: si tratta di quel senso parallelo all'azione letteraria per cui al viaggio di Dante dalla selva al Paradiso terrestre dietro a Virgilio e all'ascensione per i cieli sotto la guida di Beatrice corrisponde il cammino dell'umanità verso la felicità terrestre sotto la guida dell'Impero e della Chiesa". A queste pagine, che sono il frutto di una lunga, puntuale esperienza di lettore e d'interprete, si possono aggiungere le considerazioni di N. Sapegno che, rilevano come in Dante il "sistema sopravvive anzitutto come poetica" da illuminare caso per caso attraverso le matrici ideologiche dello scrittore; non per nulla, d'altronde, il Sapegno è anche dell'avviso che una nuova lettura dantesca non possa ignorare gli accessus esegetici di un Auerbach e di un Singleton. A questo atteggiamento pare conformarsi molta della critica contemporanea, magari in dura polemica con il crocianismo, come accade nel caso di un Montano; mentre si approfondisce la relazione tra l'allegoria della Commedia e una sensibilità scritturale e tipologica, si tenta insieme di situare il fatto allegorico nella ricchezza della forma simbolica cristiana tra filosofia, poesia e rito, e d'illuminarne gli elementi espressivi che conservano, anche per un lettore moderno disposto ad accogliere l'interna dialettica tra presente e passato, una forma di comunicazione intellettuale. Più di recente il Mazzoni (nel suo Saggio di un nuovo commento alla Divina Commedia, Inferno I -III, Firenze 1967) ha dimostrato quale vasto campo di risonanze culturali sia possibile recuperare attraverso un'esegesi che inquadri, sullo sfondo dei testi della mistica vittorina e della tarda latinità, il pellegrino dantesco a una visione del mondo dove il simbolismo biblico e cristiano si configura storicamente nella grande idea di una metanoia politica. Si può forse dire che anche l'allegoria, liberata dai sospetti del razionalismo e dagli entusiasmi dei decifratori, sia entrata a far parte del sistema di linguaggio o della mescolanza degli stili di cui consiste la Commedia. Ciò che sembra appunto una rigorosa penetrazione della parola dantesca, tenendo conto che le res bibliche o cristiane hanno insieme il valore di verba e appartengono perciò al processo interno dell'espressione, al contesto attivo dell'immagine. La proposizione tomistica secondo cui "intellectus metaforicae locutionis in Scripturis est litteralis", può essere in parte applicata, anche se in senso tutto particolare, al rapporto res-verba della Commedia.

tratto da: Bruno Basile, Ezio Raimondi, Commedia, in "Enciclopedia Dantesca", II (1970), pp. 79-113